Voglio fare il gentiluomo... e non voglio piú servir!!! No! No! No! No! E non voglio piú servir!!!

Considerazioni

Voglio fare il gentiluomo... e non voglio piú servir!!! No! No! No! No! E non voglio piú servir!!!

Leporello

Leporello

 

Dalla celebre arietta iniziale del don Giovanni di Mozart, appaiono chiare le considerazioni di Leporello: è costretto da un padrone dissoluto e da un destino crudele, a faticare, a “mangiar male e mal dormir”, “pioggia e vento a sopportar”, il tutto per appagare le vanesiate senza freno del galante signorotto.

 

Avrà ragione il nostro amico servitore di esprimere in tali accenti le sue accorate rimostranze? È proprio un ingrato colui che lo comanda (ma anche lo mantiene, gli dà un tetto, da man­giare e bere, qualche soldo, una livrea rispettata in società) cosí come è davvero impietoso il destino che lo ha posto nella cate­goria degli umili, degli oppressi, dei perdenti (ma con diritto alla pensione, all’assistenza medica, e alla sicurezza personale)?

 

È cosí dunque che stanno le cose coi Leporelli di tutto il mondo? Sinceramente non lo so, non ho ancora capito bene le ragioni piuttosto machiavelliche dei donGiovannini che scrivono e riscrivono leggi fumose e inconcludenti e le motivazioni dei vari Leporelli, che dovrebbero rispettarle, ma che invece s’ingegnano quanto e quando possono a contestarne fautori e promotori. Non sempre hanno ragione i primi, raramente i secondi: tutto dipende dal modus con cui si amministra e dalle reazioni degli amministrati.

 

Giambattista Perasso, detto Balilla

Giambattista Perasso, detto Balilla

 

Quello delle classi sociali è un gioco molto antico; pure nell’età moderna non abbiamo cambiato di molto le regole generali, anzi, semmai le abbiamo rese ancora piú numerose e torbide con l’intro­duzione di nuove categorie; fazioni, suddivisioni e schieramenti di minoranza sempre piú frastagliati. Non trovando ulteriori distinzioni nei campi tradizionali di sesso, età e culto, già sfruttati da tempo, sono costretti ora a prendere le mosse da specificità maggiormente sofisticate ma altrettanto con­vincenti, quali dermopigmentazione, nozionismi basici, revanscismi pseudoumorali, neocelticismi di terza mano, accomunati tuttavia da un indefinibile brivido di libertà che secca le gole, attanaglia i cuori, fa prudere le mani, e in sostanza pone gli afflitti in una sorta di fibrillazione instabile come Gian Balilla dopo un concerto degli Heavy Metal.

 

Chi ha fatto un po’ d’esperienza sul campo senza trar­ne gran profitto, potrebbe sostenere che se il problema fosse tutto qui, la soluzione è semplice: basta eliminare le differenze economico-sociali e si ritorna tutti in un regime di normalità. Se nessuno è piú alto, piú bello, piú ricco, piú sano, colto, intelligente e piú fortunato di me, perché dovrei sprecarmi ad invidiarlo? E se mi spoglio di tutte le occasioni per invidiarlo ed invaghirmi delle sue cose, perché dovrei cercare motivi per scendere in piaz­za, incendiare cassonetti, ribaltare autovetture e danneg­giare le cose pubbliche?

 

Si può credere seriamente che inneggiando a slogan stracotti tipo “lavoro e libertà”, oppure “pane e democrazia”, le brame represse dei riottosi, il livello di astio, di livore e di odio che le alimenta, rimangano celati agli occhi di uno spettatore silenzioso che (senza legami con la Digos) osservi la calca dal di fuori? Evidentemente qualcuno bara; ma chi?

 

 

I Primi Fuochi dell’Alba

 

Ci fu un tempo in cui l’entità psichica umana, appena costituita attraverso un sapiente concorso di forze spirituali precursorie, e di altre, pure spirituali ma meno dinamiche, entrò in quella fase di sviluppo caratterizzata dalla possibilità di acquisire conoscenza al fine di accedere ad un livello di autoidentificazione in cui la Vita avrebbe potuto trionfare come il Sole in un cielo di primavera.

 

Il processo si verificò parzialmente; per delle ragioni che non sono in grado di riferire, ma che ci sono state ampiamente descritte da personalità cui non mancò la capacità di farlo, ci fu un intoppo e quel risultato che ne sortí, dovette per tutti gli anni e i millenni futuri porre l’umanità sopravve­niente di fronte al guasto dei primordi, il quale prese l’abitudine di presentarsi puntualmente nei secoli per stimolare i discendenti degli sbadati protogenitori, sollecitarne l’impulso ad una am­menda, ad una riparazione, ad un risanamento del malum non digerito. Oppure (scelta non primaria ma comunque utile a tener desto il problema in tutta la sua spinosità) per continuare ad angariarli fintanto che non si fossero resi coscienti del torto ereditato, allorquando nella notte dei tempi splen­deva ancora la Luce della Verità.

 

Salterio Hunteriano «Albero della Conoscenza del Bene e del Male»

Salterio Hunteriano «Albero della Conoscenza del Bene e del Male»

 

Avvenne cosí: l’anima dell’uomo fu dapprima ingenuamente indotta a rapportarsi con l’Albero della Conoscenza, senza aver accolto in sé nulla dell’Albero della Vita, e senza supporre che da un tale sbilanciamento ne sarebbe derivata una stortura evolutiva infinitamente pericolosa e de­stabilizzante, tale da mettere a repentaglio ogni tentativo di successivo ravvedimento.

 

Esattamente quel che succede oggigiorno, quan­do una équipe di valenti ingegneri e di tecnici specializzati progetta e crea un ponte destinato a durare nel tempo, e pone fin dall’inizio la rac­comandazione di provvedere, a scadenze presta­bilite, al controllo della struttura ed alla sua ma­nutenzione.

 

Se invece (si supponga per assurdo) gli inge­gneri non sono valenti e i restanti operatori scarsamente specializzati (non occorre qui dire imbroglioncelli o collusi, si capisce lo stesso) allora sorge una variante consequenziale: la possibilità che i responsabili del ponte, dopo un certo numero di anni, ignorando il precetto cautelare, ritengano la costruzione eterna e perfetta cosí com’è, e quindi non si peritino di fare ulteriori monitoraggi perditempo e controlli costosi e defatigatori.

 

Poi arriva il patatrac e la collettività piange, strilla, s’indigna; avvocati e giudici si mettono al­l’opera, affilando lance e spade; i partiti politici cavalcano l’onda dello scontento; manifestazioni e cortei sbandierano ai quattro venti la ferma decisione del “cosí-non-va” e “non-se-ne-può-piú”; spun­tano comitati per la raccolta di collette e suffragi. Le Autorità mantengono la loro imperterrita espressione prudenziale, moderatamente severa, di chi vuole sostenere il disagio nazionale a spalle rigide e sorriso eginetico, appena appena accennato.

 

Ma intanto l’errore de cuius continua, si moltiplica, produce una lunga sfilza di sbandamenti, infiltrazioni, patologie transfrontaliere, nevrastenie collettive, imbarbarimenti virali, mugugni stro­picciati, programmi d’intrattenimento tv, e una pruriginosa urgenza di comunicazioni social.

 

Non desidero tuttavia trattare ora quanto mi riservo di fare dopo, nella seconda parte dell’articolo, che ho intitolato” Gli Ultimi Fuochi della Sera”. A proposito: se qualcuno mi chiede perché ho scelto questa dicitura dei Fuochi, dell’Alba e della Sera, sinceramente non lo so; a me pareva che stessero bene con l’argomento e in un certo senso lo incorniciassero, ma è una valutazione del tutto per­sonale, che non mi sento di difendere ad oltranza.

 

Torno quindi al tema in corso, introducendo adesso un elemento di assoluta importanza per la vita, per l’uomo e per l’evoluzione della sua anima e, non credo di esagerare, se aggiungo per l’uni­verso intero (del resto, come potrebbero anime e universo avere due destini diversi?).

 

Un po’ dalla storia, qualcosa in piú dalla Tradizione, ma sicuramente molto dall’esoterismo aperto a tutti del dott. Rudolf Steiner, siamo venuti a sapere di determinati fatti circa la Passione e Morte del Cristo Gesú. In particolare siamo stati edotti (parlo ovviamente per quelli ai quali un tale argomento risulti interessante) sulla situazione storico-politica entro la quale i fatti narrati si svolsero.

 

In quell’epoca, il popolo d’Israele, quanto ad ordinamento socio-politico interno, era rappresen­tato prevalentemente dalle classi dei Sadducei e dei Farisei: i primi detenevano le leve del potere, erano non dico favorevoli, ma per lo meno propensi ad accettare l’imperialismo dei Romani. Anche la Giudea aveva imparato il senso dell’“ubi maior ecc.” del mondo latino.

 

I Farisei dal canto loro rappresentavano una larga fetta di popolazione, piú o meno equivalente alla media borghesia; osservavano con zelo la legge mosaica e ritenevano che la religione dei padri dovesse rimanere la prima fonte d’ispirazione anche per gli affari di Stato. Le due categorie, sbi­lanciate com’erano a favore di mete sostanzialmente diverse, concordavano su poco o nulla.

 

Sicché il potere politico doveva destreggiarsi in un senso per mostrarsi non troppo accondiscen­dente verso gli invasori, ma dall’altro, ove possibile, doveva anche sforzarsi di difendere e soste­nere gli interessi dei fondamentalisti, il cui numero era ragguardevole, e cresceva di continuo, in un malcontento viscerale legato a un antiromanismo di massa, di cui pur si doveva tenere conto.

 

Gesù o Barabba

 

Tutti, in questa nostra epoca attuale, conosciamo anche nei dettagli i fatti del processo al Gesú di Nazareth, e quindi non ho nessuna intenzione di ri­scriverli, perché sarebbe una fatica inutile che so­prattutto nessuno mi ha richiesto. Ma è importante, secondo me, vedere come l’accadimento destabi­lizzatore dell’Origine, possa aver influito nel corso dei secoli sulle anime umane, e in qual modo le ab­bia misteriosamente sospinte, preparate, direi quasi predisposte, al fatidico momento in cui, alla do­manda del Governatore Pilato, esse scelsero di li­berare il bandito Barabba, piuttosto che l’Uomo di cui pur avevano ascoltato le parole, veduto le azioni, e accolto i princípi, durante gli ultimi tre anni.

 

Viene da fare una riflessione molto particolare, e credo che soltanto Rudolf Steiner possa essere stato l’uomo capace di evidenziare un legame tra Sacre Scritture, miti, leggende e la storia del mondo; un legame di causalità in grado di correre come un sottile ma tenace fil rouge attraverso il tempo e lo spazio, fino a dare un significato profondo, drammaticamente umano, al fatto che in determinati momenti della vita, l’anima viene a mancare a se stessa, non trova piú le forze per proseguire verso ciò che l’ha scaldata e illuminata.

 

Con un rapido e terribile dietro-front, siamo capaci di sputare nel piatto in cui mangiamo, negarci alla vita, e per qualche dollaro in piú, anche maledire il Divino e odiarne la Luce. Di certo, siamo vi­cini al Barabba; forse pure all’Uomo della Croce; ma non siamo vicini a Quello della Resurrezione.

 

Comunque i giudizi morali, specie quelli ultratardivi non servono a nessuno. Resta invece la for­za di un fatto conoscitivo determinante, ieri quanto oggi, in virtú del quale possiamo comprendere come tutti i nostri concetti, le nostre intuizioni piú belle, le nostre idee piú nobili ed elevate, non ce le possiamo davvero permettere, se prima non abbiamo maturato nelle nostre anime quel minimo patrimonio di moralità e di chiarezza sufficienti a mantenerle vive, sane e vigorose.

 

Perché sia ben chiaro che le anime degli uomini possono offrire allo Spirito solo le condizioni in cui far germogliare e fruttificare le forze eteriche del pensare, le quali devono prima attecchire, radicarsi, per poi sviluppare e crescere. È un processo che richiede consapevolezza, coerenza e co­stanza. Le stesse che nelle rappresentazioni moraleggianti piú semplici e immediate, si attribuiscono ad un buon padre di famiglia intento alla cura dei figli o ad un coltivatore provetto che si dedica con amore e tenacia alle proprie pianticelle.

 

O diventeremo capaci di corroborare i frutti della Conoscenza col nostro alimento di vita che solo possiamo estrarre dalla sudata corteccia esistenziale, oppure i nostri pensieri seguiranno di volta in volta i fantasmi che li alimentano, sorti dalle fucine della bassa interiorità e vaganti sulla terra come inquietudini tormentose prive di pace e di riposo.

 

In ciò perfino il poeta, notoriamente laico, Giosuè Car­ducci, fu un saggio ammaestratore: «…e i rei fantasmi, oh non seguire; i rei fantasmi che da’ fondi neri de i cuor vostri battuti dal pensier, guizzan come da i vostri cimi­teri, putride fiamme innanzi al passegger».

 

I cipressi di Bolgheri

 

È la radiografia di uno stato animico veramente preoc­cupante; soltanto la purezza del mondo vegetale, simbo­leggiata in questo caso dai Cipressi di Bolgheri, potevano rilevarla. Dalle conferenze tenute dal Dottore e raccolte dalla rivista «Antroposofia», si può dedurre una ragguar­devole linearità, tra gli avvenimenti citati e la spinta alla decadenza che si verifica nell’intimo degli esseri che siamo, con sempre maggior forza, per quanto riguarda la tenuta dell’impronta spirituale originaria.

 

Attanagliata non tanto alla natura, ove un’immanenza spirituale di fondo (fondo in senso pura­mente metaforico) persiste integra e inalterata, quanto piuttosto al rapporto di bramosità instaurato con la natura, ovvero con la sua sostanza di terra, con la materia, l’anima tende sempre piú a perdere consapevolezza del suo antico rapporto con il Mondo dello Spirito.

 

Tale depressione raggiunge uno dei suoi culmini piú eclatanti nel IV Concilio di Costantinopoli del 869/70 d.C., considerato ecumenico dalla Chiesa Romana, e secondo il quale venne abolita la suddivisione tradizionalistica dell’entità umana in corpore, anima e Spirito, riconoscendo valide soltanto le prime due. Tale atto – afferma il Dottore – è direttamente consequenziale alla seduzione luciferica avvenuta nella dimensione edenica, nonché alla decisione, lungamente successiva e tutta terrestre, del popolo ebraico di mandare a morte il Messia.

 

Indicare la dinamica delle linee essenziali che percorrono la Storia del Mondo, alla medesima stregua con cui un docente di medicina mostra ai suoi allievi il reticolo del sistema cardiocircolatorio che si ramifica nel vivente e, col passare degli anni, ne determina le alterazioni e le patologie, può sembrare a tutta prima un eccesso di fiducia nella capacità di osservazione e di intuizione concesse ad un singolo uomo. Se tuttavia abbiamo fin qui creduto nella visione chiaroveggente di Rudolf Steiner, non possiamo tirarci indietro proprio ora: nel momento in cui egli, grazie a questa specifica sua virtú, ci rende coscienti di cause che hanno influito, e che stanno influendo in modo clamoroso, sulle vicende odierne; quelle che vediamo e sentiamo quotidianamente, anche se qualcuno preferisce non vedere né sentire, e chiama in ballo motivazioni che dietro la loro inconsistenza, nulla possiedo­no per aderire a ciò che sta agendo nel corso degli avvenimenti. Molti sono gli effetti che si ri­producono da una causa oramai caduta nel dimenticatoio e non tutti sono palesi.

 

 

Gli Ultimi Fuochi della Sera

 

Ho valutato a lungo prima di affermare la considerazione che segue; naturalmente posso aver preso una cantonata, nessuno è perfetto, e quando si toccano dei temi cosí vasti e impegnativi, l’erro­re è sempre in agguato. Pur tuttavia, anche convinto che la mia opinione solleverà un certo scalpore da parte di amici che percorrono la via dello Spirito in modo piú zelante e ortodosso del mio, sento qui giusto sostenere una tesi quanto mai chiarificatrice, per tutti coloro che desiderano veramente conoscere quel che oggi sta capitando all’umanità e alla sua svolta, che in questa epoca si presenta alquanto involutiva.

 

L’aver attinto sconsideratamente al frutto dell’Albero della Conoscenza, prima d’aver colto con la propria anima il senso elevato e integrativo dell’Albero della Vita, ha creato una squilibrio nell’in­teriorità dell’ uomo, fino a giungere al punto in cui la sua produzione di pensiero è diventata, in senso generale, spiritualmente infeconda. I pensieri dell’uomo moderno sono sterili perché il terreno of­ferto dall’anima è attualmente un terreno di morte e di desolazione; i pensieri sono divenuti gli aborti di quella forza spirituale da cui pure sono stati originati: accolti dall’entità psichica degli esseri, hanno trasformato la valenza delle qualità positive in masse d’urto quantificatrici, predisposte a raccontare ogni particolare della vita e del mondo, secondo un codice che nulla ha piú a vedere con un’etica di base, ma soltanto con una materia che si vuole esprimere mediante peso e misura.

 

Cesare Nebbia «IV Concilio di Costantinopoli»

Cesare Nebbia «IV Concilio di Costantinopoli»

 

Dal Concilio di Costantinopoli dell’anno 869 d.C. l’ani­ma dell’uomo è stata derubata dello Spirito, e questo le ha inflitto un danno pressoché irrimediabile, perché a questo punto le è stata compromessa la possibilità di mantenere un rapporto vivente col Mistero del Golgota. Quanto me­no per quella parte di detto Mistero che fa leva sulla sua naturale spontaneità di aprirsi e offrirsi al Divino.

 

La parte esoterica riguardante la Morte e la Resurre­zione del Cristo è stata resa impercepibile, e in compenso è prevalsa la raffigurazione storica dell’Uomo di Nazareth; l’irrepetibilità dell’Evento, la sua portata cosmico/univer­sale ridotta ad un corollario liturgico differito nel tempo. Nel pensare umano di quest’epoca, come conseguenza di quanto appena detto, c’è solo la spinta, la corsa affannosa della necessità imperante; una necessità costrittiva, tesa alla riparazione di quel che è diventato obbligatorio riparare (in gran parte derivato dalle nostre incurie, empietà e scelleratezze capaci di arrivare al livello di furie distruggitrici, di fronte alle quali anche il piú agguerrito dei cataclismi naturali equivale ad una passeggiata domenicale al parco). E mentre si studiano i metodi migliori per effettuare tali ripara­zioni, si creano (coscienze complici o inavvedute, o semplicemente inebetite?) ulteriori focolai di ignoranza e di avversione sfocianti in altrettanti covi di rancore e di vendetta.

 

L’opera di Rudolf Steiner ha indicato il percorso di questo lungo processo di deteriorazione interiore giunto adesso a questo livello, e sarebbe un bene per tutti se i pensieri comunicati attra­verso la Scienza dello Spirito e i testi dell’Antroposofia a tale proposito, divenissero oggetto di un nostro impegno meditativo col quale approfondire un problema finora mai seriamente preso nella considerazione che si merita.

 

Si teme molto il contagio epidemico in corso; alcuni trovano anche la capacità di sfidarlo, sde­gnando le precauzioni elementari prescritte all’occorrenza; ma sia la scelta remissiva e compiacente di mostrarsi ligi alle direttive sanitarie, sia quella di contestarle con la veemenza e l’impeto di chi non ammette altre ragioni oltre le proprie, sono due alterazione di un’unica follia; almeno io la vedo cosí; entrambi gli schieramenti infatti rimangono totalmente sordi e ciechi di fronte alla vera causa del male che continua a celarsi dietro le ambiguità, le reti­cenze, le omissioni e le menzogne dei pro e dei contro.

 

calderone

 

Il male piú grave è sempre quello che non si vede; ma non si nasconde nel buio perché ha voluto sottrarsi alla nostra perce­zione: rimane invisibile perché qualcuno nel corso dei secoli ha fatto in modo che i nostri occhi si limitassero a vedere soltanto la materia e le sue infinite rimestazioni, senza intuire mai che se quel che bolle e ribolle in pentola sale tumultuoso alla superficie, bisogna prima aver acceso un bel fuoco, posto sopra un cal­derone pieno di liquami ed ingredienti, ed averlo condotto al grado di calore giusto per il risultato richiesto.

 

Continuare a fissare stolidamente le cose irriconoscibili che salgono a tratti in superficie e poi sprofondano all’interno della broda; decidere di volta in volta quali siano quelle piú confacenti ai nostri interessi e quelle da scartare; etichettarle coi titoli appresi dal linguaggio comune o dall’indottrinamento di correnti ana­cronistiche, facili da rispolverare quando l’ordine psicofisico è ormai andato a farsi benedire; accla­marli e invocarli con gli accenti appresi da film e da videogames e spacciarli poi per “diritti umani inderogabili” pertinenti a questo o a quell’altro ideologismo preconfezionato, quali brandelli di un passato fantasma che non vive nel giusto ricordo ma nel torvo rancore di egoismi insoddisfatti e di brame represse: ecco il calderone infernale in cui sono costrette le anime della contemporaneità mon­diale, ree di essersi consegnate ad una lunga sudditanza a forze anticristiche; e di aver contempora­neamente rimosso quel messaggio d’Eternità che dal Golgota venne trasmesso alle generazioni del passato e del futuro.

 

Come si fa ora a trasferire in limpida consapevolezza quel che può derivare da una simile con­cezione, che prima ancora di essere riconoscibile come immagine mentale, appare a chi vive nel materialismo piú denso un fritto misto di allegorie e simbolismi mistico-visionari?

 

Equivarrebbe a tentar di convincere Leporello che il karma dell’uomo distribuisce i ruoli esi­stenziali secondo una saggezza ed un amore di cui noi ancora nulla possiamo sapere, per il sem­plice fatto che le nostre stesse vite sono maturazioni parziali in fieri, e quindi è del tutto inutile spiegare l’algebra ad un bimbo delle scuole elementari, come è altrettanto inutile interessare all’ese­gesi delle Sacre Scritture un laureando della Bocconi.

 

Per capire un tale semplice sillogismo basterebbe avere l’anima non dico in auge, ma almeno un po’ serena, magari per soli pochi minuti; ma è proprio qui che veniamo puntualmente fregati dalla dittatura dei telefonini, dal frastorno incalzante dei cicalini, dallo schiamazzo vociante, dai notiziari martellanti, dalla pubblicità starnazzante, dai gossip untuosi e inverecondi, che per quanto nume­rosi sono sempre inferiori di numero alle sollecitazioni interiori negative che intanto si stampano nel profondo della nostra interiorità.

 

Quando ci si sente intimamente violati, si dà spazio unicamente all’inquietudine, non certo alla quiete. E dall’abisso delle inquietudini saltano fuori molte cose; esse possono spiegare con esat­tezza i perché e i percome dei nostri giorni e delle vicende che li riempiono fino al trabocco.

 

A patto però che chi compia questa analisi, sia disposto a farla usando tutti i mezzi che il suo pensare, sentire e volere di uomo gli consentono. Altrimenti il risultato sarà quello che in generale è: incompleto e soggettivo secondo le limitazioni imposte dall’egoità.

 

La sintesi del recente incontro geopolitico del G20, che si è tenuto a Roma ad ottobre, è stata espressa in un comunicato finale che potremo interpretare negli anni a venire: «C’è molto da fare per le generazioni future e lo faremo, senza però rinunciare alle nostre aspirazioni».

 

Se le “loro” aspirazioni sono quelle che hanno condotto il mondo fin qui, allora si può capire come il danno perpetrato all’alba dei tempi, stigmatizzatosi nell’evento del Golgota e proseguito poi nel Concilio di Costantinopoli, continui imperterrito a mettere radici; tanto sulla superficie della Terra quanto nella profondità delle anime.

 

C’è ancora un’affermazione, uscita anch’essa in occasione del G20, la quale merita un breve commento: «Nessuno creda di salvarsi da solo».

 

Ripropongo tale frase come un campioncino di ermetica sibillina. C’è in essa qualcosa di vero e contemporaneamente qualcosa di falso, tipico di questa nostra epoca cosí controversa e rimestata a piú mani.

 

Prima di tutto ne presento la stortura: sento la necessità di ricordare che nessuno, ripeto nessuno, è solo (a meno che non lo voglia espressamente). Ognuno di noi ha un Angelo Custode, un Io supe­riore, un Arcangelo del popolo, un volto dell’anima rivolto al Divino; e per giunta genitori, parenti, avi, amici e persone amate, che, non piú in vita fisica, continuano tuttavia da una dimensione sovra­sensibile la loro opera di amore, di riguardo e di attenzione protettiva per il designato.

 

In seconda battuta, l’espressione citata porta in sé una verità fondamentale: l’umanità, anche cosí malconcia com’è, si salverà, ove ognuno di noi sappia orientarsi al Cristo e possa far valere quel­l’IoSono per la nascita del quale il Cristo è salito sul Golgota.

 

Naturalmente ho molti dubbi sul fatto che il personaggio politico del comment abbia avuto in mente una futura unione dell’IoSono, e non abbia piuttosto inteso rivolgersi alla platea dei tanti “ego” militanti il mondo immaginifico cui si rapporta.

 

Arlecchino

 

Tuttavia, come l’“Arlecchino si confessò burlando”, anch’egli, producendosi in una ennesima mezza bugia, ha finito per svelare una mezza verità (dico “mezza”, perché ovviamente la comunione spirituale dei tanti IoSono è ancora tutta da rea­lizzare, e per essere sinceri, oggi come oggi, non se ne vede un accenno). Certa­mente sarà l’unica soluzione possibile. Bisognerà riconoscerla.

 

Riusciranno dunque i vari Leporelli, sparsi in tante fazioni multicolori, e i donGiovannini abbarbicati ai troni, scranni, ai CdA, e alle leve del potere, a conseguire meditativamente (ma anche congiuntamente) una siffatta felice intuizione?

 

Non ne ho la minima idea. Voglio concludere questa lunga chiacchierata esternando una mia sensazione: da quanto ho detto fin qui, per me i “potenti” che incendiano il mondo intero per cercare di possederlo e sottometterlo, si tro­veranno in mano soltanto fuliggine e stracci volanti. Dobbiamo riconoscere chi, e perché, ha volontariamente appiccato l’incendio, e non continuare a restare occupati a seguire le traiettorie di grumi di zolfo, di ceneri e di lapilli che aleggiano incessanti, ammorbando tutto e togliendoci lentamente l’aria e la luce.

 

In questo incendio sotterraneo sprigionatosi attraverso epoche, ere e mil­lenni (credo d’aver descritto un po’ le cause, la natura e gli scopi) scorgo l’agitarsi scomposto e furente di un’unica categoria che riassume in sé i partiti, le fazioni e gli schieramenti: quell’«Io non voglio piú servir!» vale quanto «Sí! Io voglio essere servito!». Sembrano due contendenti in lizza. Ma quando il male viene da una sola fonte, allora le differenze e le distinzioni che si ritenevano essenziali, spariscono.

 

Tale mono-categoria di umani (o forse neanche tanto umani) ha un suo nome, che va compreso: è la categoria dei “No-Pax”.

 

A onor del vero, fino adesso non ha trovato rivali.

 

 

Angelo Lombroni