La strada di Pasqua

Considerazioni

La strada di Pasqua

 

La strada di Pasqua

 

Il tempo di Quaresima è la Strada che porta alla Pasqua. Nel mondo ci sono strade di tutti i tipi; lunghe, corte, strette, larghe, dissestate, campestri, centrali, pe­riferiche, frequentate o deserte. Ma quella che con­duce alla Pasqua, è una sola; ed è inconfondibile. È una Strada molto antica; polvere di secoli compressi nel fosco vento, di un lontano equinozio, battuta un tem­po da calzari militari, incisa oggi da mezzi cingolati.

 

Ognuno ha davanti a sé questa Strada; è libero di percorrerla cosí come è libero di non farlo; non tutti amano la fatica della salita portando sulle spalle l’in­credibile peso dell’esistere. Ma prima o dopo, magari con un timido passo, o per una spinta imprevista, l’ascesa ha inizio. Nell’avanzare, ci si accorge che molti, già incamminati, ci precedono in ordine sparso; ma non è una gara a chi arriva per primo; il passo sostenuto deve pertanto rispettare l’umana possibilità della fatica.

 

Una volta decisa, la partenza è semplice: ogni momento, ogni situazione, ogni posto è quello buono; il percorso si costruisce praticamente da solo; basta muovere le gambe.

 

Si può cominciare da una cosa qualunque; da quella che sembra la piú significativa a quella che può apparire un’inezia, o un fatto del tutto marginale. Come, ad esempio, il Festival Della Canzone Ita­liana. Perché no? Vogliamo provare iniziando da qui?

 

Sanremo è sempre Sanremo

 

“Sanremo è sempre Sanremo”; si dice cosí. Ma perché? È un luogo comune, una vox populi, o un (de)cantato vanto di patrio campanilismo? Questa domanda non mi sarebbe mai passata per la testa, eppure, dal momento che per molti anni, in pros­simità della ricorrenza canora (e anche per numero­se settimane seguenti) non si parla d’altro (e l’una­nime slogan viene ripetuto a stornello da destra e da sinistra) l’interrogativo mi pare giustificato.

 

Ho però la sensazione che il quesito trascenda il Festival della Canzone Italiana; ogni problema ha il suo pretesto fin dall’epigrafe, e qualche volta quest’ultimo prende le vesti del parente povero. Il che dimostra con evidenza che i temi avvertiti dalla psiche, grandi e piccoli che siano, possono sorgere anche da condizioni a tutta prima impensabili; pure da quelle fracassone, scollacciate, non di rado stucchevoli.

 

Quindi il problema non è tanto sostenere se Sanremo sia sempre Sanremo, quanto affermare a chia­re lettere che noi siamo fatti cosí e non ci garba di cambiare. Diciamo di volerlo fare, questo sí, ma alla luce dei fatti, i cambiamenti buoni sono solo quelli che ci permettono di conservare tutto, anche le foto dei trisavoli di cui a stento ricordiamo i nomi. Amiamo questo nostro mondo imperfetto, nono­stante tutto quello che ci abbiamo messo dentro: litigi, sofferenze, smania di grandezza, confusione mentale, incapacità di reazione, abulia, cecità spirituale e uova di cioccolato con sorpresina interna. È un vasto mare di ambiguità standardizzate difficile da estinguere. Ma abbiamo anche pronta una giustificazione dotta: “è il mare nostrum”, che di per sé vale quanto il “sanremum” delle canzonette.

 

Di conseguenza, il Festival può rientrare di diritto tra quegli eventi che in qualche modo cercano di rallegrare il panorama generale, piuttosto infoschito in questi ultimi tempi, vivacizzandolo come possibile, anche a costo di ottenere il mini-effetto di un petardo sparato durante una sarabanda infernale. Si fa quel che si può.

 

Disgraziatamente il vero problema sta proprio nel contrario: si fa quel che si può, è vero, ma non si fa quel che si potrebbe. Il Festival diventa quindi un evento che, lungi dallo stringere relazioni di solidarietà ed empatia tra gli animi canterini sparsi per i cinque continenti (come gli organizzatori e i loro complici pretenderebbero) ne enfatizza piuttosto gli strati negativi meno nobili, sulle ali di una finzione scenica, la quale rincuora gli esseri umani con la medesima voglia di vivere che un sorsetto di rum dava ai combattenti della Prima Guerra mondiale, pronti nelle trincee per l’ennesimo assalto.

 

Tutto fa brodo; però ci sono alcuni brodi che sono difficili da mandar giú. Ecco, forse il Festival di Sanremo dovrebbe rientrare tra questi: potremmo chiamarli “Studi sulle Cose Difficili da Mandar Giú”. Magari ne verrebbe fuori un best seller.

 

Divide et impera

 

Dai saggi testi dell’antichità ci proviene il mes­saggio ecumenico “amatevi e moltiplicatevi”; il suo esatto contrario sta proprio nell’imperativo monda­no, quello che vuol sopraffare e comandare tutto, e in base al quale è stata stabilita l’essenzia­lità del programma esecutivo: “Dividere per governare”.

 

Qualcuno sostiene con ludico ottimismo che le due proposizioni non stanno in perfetto equi­librio simmetrico, nel senso che riguardano due lati della vita umana, sufficientemente distanti fra loro per creare interazioni.

 

Non lo nego. Mi piace tuttavia ricordare che la mol­tiplicazione è l’operazione opposta alla divisione, e che l’arte di governare dovrebbe rappresentare (almeno secondo il pensiero di Platone) il punto piú elevato dell’amore umano nei confronti del prossimo. Se poi vogliamo divertirci a manipolare i significati allargandoli e restringendoli secondo le esigenze sonore della fisarmonica, allora qua­lunque cosa venga affermata è come minimo aleatoria.

 

Intendiamoci, le divisioni sono importanti e necessarie non meno delle moltiplicazioni. Ciò che invece diviene nel tempo nocivo, quanto la consapevole assuefazione ai veleni, è l’acquiescente iner­zia dell’anima ai fatti che in lei si consolidano sempre piú. Si giunge al punto in cui la possibilità di reazione viene a spegnersi del tutto ed al suo posto compare una strana propensione, a volte ac­compagnata da accenni autolesionistici, di proseguire sulla strada del declino.

 

Guardando con attenzione al fenomeno degli schieramenti e di tutto ciò che tende a dividere gli esseri umani, impedendo loro quell’assieme corale e costruttivo che solo può incidere positivamente in qualunque forma di organizzazione sociale, diventa pressoché impossibile evitare il pensiero che esistano forze sovraumane intente al compito di rendere instabile ogni nostra decisione cosciente e di mantenerla integra nel tempo; in sostanza (mi si perdoni il termine poco aulico) se ne ricava la netta sensazione di esser presi per i fondelli, perché ben poco di quel che finiamo per fare è farina del nostro sacco.

 

Chi non vede oltre la punta del naso, crederà invece di poter scaricare la responsabilità sugli uomini dei governi, delle istituzioni e sui plenipotenziari dei vari settori strategici; chi vede piú lungo, sa che, a loro volta, pure costoro (anzi, in particolare proprio costoro!) sono manipolati da forze aliene che li hanno posseduti e che, salvo eccezioni, se li tengono ben stretti, aggiogati al loro carro. Nella stragrande maggioranza dei casi, si deve precisare che, proprio grazie a “possessioni” di tal genere, essi siano pervenuti alle cariche che in effetto ricoprono, in barba a regolamenti, statuti, selezioni e libere scelte elettorali.

 

Ma per creare il caos fra quelli destinati a restare fuori dai giochi del potere ed il cui numero va scritto con dieci cifre (ricordiamolo bene, può tornar utile) non servono procedimenti elitari o strata­gemmi machiavellici; basta molto meno.

 

Il meccanismo, chiamiamo cosí il modus operandi in chiave antiumana, è tutto sommato sem­plice: si creano dapprima due polarità ideologiche ed antitetiche di qualsiasi ordine ed estrazione; da quelle sportive a quelle religiose o cultuali, passando per le altre, non certo secondarie, delle filo­sofie, della politica e dell’ordinamento sociale ed economico dei vari paesi. Poi, con calcolata len­tezza, si fanno scomparire alcuni punti essenziali di un polo, facendoli apparire, camuffati sotto rin­novato aspetto, in quello opposto, con l’effetto non del tutto immediato (ma sicuramente proficuo come lo sono i Cavalli di Troia informatici o psicologici) di destabilizzare i raggruppamenti dei sostenitori, di stratificarli, relegandoli in diversi livelli, ognuno rinchiuso in un suo particolare grado di fidelismo miope e intontito, fino a suscitare il dissidio interno fra le cosche dei “puri”, dei “meno puri”, di quelli della “prima ora”, dei “riformisti” e dei “conservatori”.

 

Se una simile fratturazione si compie in ogni consorzio umano, in base ad un piano programmato di degenerazione idealistica, si giunge all’assurda conclusione di scoprire maggior comprensione e considerazione presso il polo dei cosí detti “avversari” che non nel proprio. Fare i profeti in patrie straniere è diventato ad oggi un gioco piú appassionante del Risiko.

 

Questo può accadere soltanto perché qualcuno, o qualcosa, ha trasferito clandestinamente alcuni spunti di principio dal campo originario a quello opposto, in modo che ogni militante (che già di partenza non si curerà di svolgere una minima indagine sui come e sui perché di tale ribaltamento, ma anzi, senza avvedersene minimamente, tenderà a continuare la sua stolida battagliuzza) finirà per confondersi sempre piú, scambiando gli amici per nemici, i fedeli per infedeli, i guelfi per ghibellini, gli animalisti per animisti, i medici per stregoni, e gli stregoni per terapeuti.

 

Mi si dirà che in un mondo dove tutto cambia, e pure con una certa velocità, non ci si può ostinare a mantenere vivo e saldo un principio solo per il gusto della bandiera. Ci sono delle cose che devono di volta in volta venir modificate, ovviamente senza stravolgere la sostanza del principio stesso, ma rendendolo piú agile, snello, consono alle variate esigenze degli uomini.

 

Eutanasia

 

Potremmo parlare della Storia della Chiesa, o della Costituzione Italiana, come dell’insistenza sull’Euta­nasia (che edulcoriamo col nome di “diritto a un fine vita dignitoso”) o di proseguire nell’opera di demo­cratizzazione dei popoli sottoposti ancora a regimi autocratici e illiberali, scendendo fino agli attuali con­flitti parlamentari sui ravvedimenti giuridici, econo­mici e sanitari, e se desideriamo non farci mancare nulla, possiamo pure includere una bella discussione circa la validità della legge Bolkenstein sulle conces­sioni demaniali; ma, perduto cosí altro tempo pre­zioso, inaspriti ulteriormente gli animi, avremmo fatto tutt’altro di quel che invece avremmo dovuto.

 

Perché, nel frattempo, mentre le suddivisioni si succedevano alle suddivisioni, polverizzando sul nascere ogni tentativo di unione e di coesione, reiterandosi senza freni la corsa alle spartizioni, com­presa quella di stabilire ogni volta una ennesima sottocommissione per analizzare e studiare (in tempi brevi, sic!) i motivi dell’inefficacia della commissione precedente: nel frattempo, il Ponte di Genova crollava, il virus dilagava, le fabbriche legate a gruppi piú o meno internazionali mandavano a spasso gli operai, licenziandoli mediante un fax di gruppo, gli infortuni sui luoghi di lavoro aumen­tavano in progressione geometrica, le violenze di genere fiorivano coperte dal silenzio delle famiglie, e lungo i confini dell’Europa, imponenti manovre soldatesche denunciavano velleità politico-militari piuttosto disoneste, non piú frenate dall’astuzia delle cancellerie.

 

Torna allora nuovamente in campo quella obiezione, tanto spontanea quanto imbelle, che fa ri­manere tutti gli schierati di destra, di sinistra e di centro, atei confessi e confessionisti impenitenti, con la bocca aperta, a chiedersi: «Come è potuto accadere?».

 

La risposta è obiettiva, chirurgicamente impietosa ad un tempo: mentre voi vi divertivate a giocare a Guardie & Ladri, altri esseri dotati di coscienza pensante si sono occupati degli eventi del vostro mondo; li hanno sospinti fin sull’orlo del precipizio del probabile; ma è solo per le vostre deficienze umane che vi sono poi precipitati dentro, divenendo concretamente, mostruosamente possibili (im­magino che un venusiano, studioso di storia terrestre, in un lontano futuro, avrebbe concluso cosí, ma non ne ho la certezza).

 

Quindi, nel ripetere compiaciuti che Sanremo è sempre Sanremo, sarà opportuno ricordare che non c’è stato nelle cronache del mondo un contrasto, armato e/o diplomatico, capace di sfociare in una soluzione, accolta con uguale favore dalle parti contendenti. Solo in questo, il contenuto dell’affer­mazione su Sanremo, ha la funzione di un sigillo sempreverde: che qualunque cosa ci allontani dal­l’amore per gli altri è un male che perdura nel tempo, non cambia mai, anche se ogni volta si pro­pone in forme diverse, moderne, tanto suggestive e sofisticate da far sembrare un delitto il non volervi aderire e partecipare.

 

Siamo fuori di testa

 

Essi (per cosí dire) cantavano (per cosí di­re): «Siamo fuori di testa, ma diversi da loro!» e quanti li ascoltavano applaudendo in visi­bilio, andavano a loro volta fuori di testa e di­ventavano simili a loro. Un bel quadretto, da­vanti al quale il primo che si alza per chie­dere: «Ma come è potuto accadere?» dovreb­be venir messo ai lavori forzati (Ops! Scusate, volevo dire “lavori socialmente utili”) vita natural durante.

 

Cerchiamo allora di sollevare il tono di que­sto articolo, perché il voler permanere nella Valle di Lacrime, insistendo nei lamenti e nei piagnistei, senza accorgersi che, proprio da que­sta Valle, diviene possibile intravedere la Strada di Pasqua, ha tutta l’aria di essere l’ultima delle umane omissioni: e potrebbe essere quella fatale.

 

«Non parlare contro il Sole». La frase non riguarda i Maneskin; sia ben chiaro. È un avvertimento molto piú antico; risale addirittura a Pitagora, ma evidentemente già a quei tempi, l’indole umana era abbastanza nota al Saggio di Samo per renderla destinataria di un monito proverbiale.

 

Vorrei ora mettere tale detto accanto ad un altro, compiendo un salto temporale di venticinque secoli (il tutto però a chilometri zero, quindi la convenienza c’è) attribuito a Friedrich Nietzsche. Nonostante che quest’ultimo non rientri nella lista dei miei pensatori favoriti, mi torna utile per uscire dalla strettoia dialettica in cui mi sono cacciato, e – soprattutto grazie all’aggancio con la citazione di Pitagora – mi facilita il risalire dal baratro delle contumelie e delle contestazioni, dal momento che, pur partendo da un semi-illustrato Festival di Sanremo, non ho fatto altro che pigliar­mela con qualcuno, umano, extraumano o collaborazionista che sia.

 

Ma come accade spesso, devo prima carburare un po’, eliminare qualche tossina di troppo, per arrivare a comprendere che questo tipo di lagnanza è il modo piú indicato (e piú sicuro) per non trovare alcuna soluzione; anzi, per favorirne l’irreperibilità.

 

Da quanto mi risulta, Nietzsche ha formulato un’opinione che dice pressappoco cosí: mentre gli uomini sono soliti a guardare a ciò che di regola accade e se ne chiedono il perché, a me (Nietzsche), vien fatto di pensare a quel che non è accaduto ancora, e di chiedermi: “Perché no?” (cosa certa­mente imbarazzante e provocatoria per la logica dell’ordinario del XIX secolo e non solo).

 

Quale argomentazione intendo quindi sostenere col mettere assieme il pensiero di Pitagora e quello di Nietzsche? Il Sole di Pitagora non è soltanto l’astro che ci rifornisce di luce e calore, che favorisce la vita e la rende possibile; il Sole rappresenta anche l’evidenza delle cose del mondo; si usa ancora oggi nella locuzione “chiaro come il Sole” e “alla luce dei fatti”, per conferire la massima lucidità all’esprimersi del reale.

 

La via della conoscenza vede nel cosí detto “realismo primitivo ingenuo”, illustrato da Rudolf Steiner nella sua Filosofia della Libertà, un primo passo necessario e fondamentale all’evoluzione della coscienza. La quale, solo dopo, cominciando ad interpretare i fatti (le percezioni) e creandosi le corrispondenti rappresentazioni, non riuscendo a cogliere l’essenzialità della funzione pensante nel­l’atto conoscitivo (che avrebbe dovuto essere in tal caso “riconoscitivo”) si addossò la responsabilità di un soggettivismo, dapprima idealistico e in seguito anche metafisico, tale da farla andare fuori di carreggiata.

 

Fuori strada

 

Il moderno materialismo è l’ultima conseguen­za di questo declinare della coscienza; siamo fi­niti piú che mai fuori strada, e nonostante i sup­porti informatici e l’efficienza di Global Assi­stance, i soccorsi non arrivano.

 

In breve: vedere e sopportare l’accanimento delle sciagure che tendono a coinvolgere tutto il mondo, è una percezione del realismo primitivo, forse ingenuo, forse no? O è piuttosto una inter­pretazione sui generis, fatta da anime che sentendosi esposte agli eventi, temono qualunque cosa, anche la propria ombra? Non è davvero possibile scorgere nel flutto degli accadimenti, una com­ponente positiva di bello, di buono e di utile, magari nascosta, ma sempre presente? Qualcosa per cui ogni protesta, ogni resistenza diventerebbe ridicola e sterile? Serve ancora battersi il petto recitando il miserere? L’imprecare contro un destino crudele e inumano? O necessita una visione di fondo che vada oltre se stessi e la rappresentata brutalità del presente?

 

Perché, anche se tra le tante frastornanti notizie che circolano non traspare chiaramente, stiamo andando verso la Pasqua, e la Strada che ci si presenta tutta in salita dovrebbe pur ricordarci qualcosa di essenziale, di particolare per il momento che stiamo vivendo. Ecco quindi il primo passo da fare, suggerito da Pitagora: «Non parlare contro il Sole!». Cioè non avversare stolidamente la realtà che arriva, ma cerca di non perdere la testa e capire cosa sta cercando di dirti. Perché ogni avvenimento che ci tocca sul vivo, è un messaggio da decifrare e da accogliere, ma si deve tener conto del fatto che la no­stra attuale struttura di uomini moderni, da molto tempo in qua, non è piú disposta ad accogliere nulla.

 

Col pensiero di Nietzsche, invece, diventa possibile quel che prima non lo era: vedere la luce nelle tenebre. Anzi, sapere che c’è sempre una luce alla fine di ogni tenebra; trovare di volta in volta la ragione del dover soffrire, per arrivare al punto di capire che probabilmente il voler soffrire, in certi casi, è l’unica via per estinguere il dolore, o quanto meno renderlo umanamente sopportabile.

 

Ma soltanto il pensiero, coadiuvato da una tenace volontà consapevolizzata e da un sentire sin­tonico, può predisporre questa speciale operazione interiore.

 

Viene il momento in cui asciughiamo le lacrime e ci rimbocchiamo le maniche; anche se sappiamo che da questo punto in avanti, quel che faremo non riguarda piú il mondo cosí detto esteriore; che la vera reazione scaturisce dall’anima, quando essa alfine si ritrova come “animo”, e intuisce che solo una sua decisione interiore e cosciente può modificare in via positiva i fatti che si svolgono nelle apparenze di una realtà non mediata. Una decisione di tale portata non può tuttavia venir presa facendo salva l’ambizione di conservare quel che abbiamo accumulato nel tempo, in fatto di beni materiali e relazioni di comodo.

 

Per cui “non tutto il male vien per nuocere”; pure questo è un detto simile per popolarità al “San­remo è sempre Sanremo”, non saprei dire se usato con maggior o minore frequenza di quest’ultimo, ma scaturito certamente grazie ad un intuito migliore.

 

Il tempo che conduce alla Pasqua, che va incontro a questa Pasqua 2022, aiuta chi percorre lo spazio che gli corrisponde; lo rifornisce di pensieri e spunti meditativi che, al di là delle subite sembianze, sono capaci di sostenere e sollevare l’anima, mentre il corpo si affatica verso la sua mèta. Sono pensieri che rivivificano dal profondo quel che di noi il mondo della materia vorrebbe unicamente affliggere e far vacillare sotto il peso degli eventi e delle situazioni.

 

Tali pensieri sono in linea con quello citato poc’anzi di Nietzsche che ne è la premessa fonda­mentale: intuire come “sperimentalmente possibile” il saper cogliere il bene anche nel male e trarne il distinguo. È in questi termini che il mondo, percepito nella sua completezza, si scopre appartenere allo Spirito, allo stesso modo in cui ogni singolo umano esistere appartiene alla Vita dell’Universo.

 

Quanti non sono ancora pronti a capirlo, lo faranno un giorno, sperando nel margine utile del tem­po che rimane; per adesso, essi riservano a sé la parte di spettatori, osannanti o ingiuriosi, comunque scalmanati per illusori motivi. È la parte piú facile da recitare perché fa sognare di non essere coin­volti, di poter vivere senza responsabilità diretta, di non dover presentare a nessuno i libri contabili del proprio agire. Le compagini umane di questo tipo sono, allo stato attuale, facilmente manovrabili.

 

Ogni aspetto del caos, inteso come crescita incontrollata e veloce, che tende al cosmo, cioè al raggiungimento di un nuovo assetto armonioso e duraturo, richiede il dinamismo e l’equilibrio delle forze in gioco; ma diventa quasi impossibile praticarlo là dove queste forze continuino ad operare, senza che le pedine in campo abbiano acquisito la piena consapevolezza di ciò che stanno facendo.

 

Come ottenere l’equilibrio? La domanda pare legittima, in quanto non si tratta qui di quel­l’equilibrio che già da bambini abbiamo appreso andando in bicicletta, o sui pattini a rotelle, e poi, piú grandicelli, praticando lo sci, il nuoto ed altri sport: è una forma di equilibrio diversa, ma richiede la medesima volontà di applicazione e la stessa paziente perseveranza calibrata sui propri intenti.

 

Tuttavia (ed è la differenza basilare con tutte le ricerche immaginabili sull’equilibrio fisico este­riore) qui diventa indispensabile la capacità di un estraniamento dalla normale partecipazione che dedichiamo attimo dopo attimo alle esigenze impresse dal fisico sensibile nella nostra anima.

 

Se questo affrancamento non riuscisse (e di certo spontaneamente non riuscirà, in quanto per forza di cose è ostacolato, anzi, fieramente avversato dalla polarità egoica dell’uomo nonché da forze ostili alla di lui evoluzione) bisognerà dapprima procurarselo, creandolo nel proprio laboratorio interiore, attraverso momenti di silenzio e di solitudine, che ciascuno di noi, volendo, potrà ricavare dal vasto repertorio dell’esperienza quotidiana.

 

Rudolf Steiner «Golgotha»

Rudolf Steiner «Golgotha»

 

Dedicando ad un simile momento periodi di tempo anche relativamente piccoli, purché costanti, l’anima si potrà affacciare su uno spazio interiore, puramente metafisico, fin qui sconosciuto (oppure solo immaginato, sognato e mai percepito) e cogliere in esso la medesima luce che da una parte ne illumina la visione, e dall’altra – contemporaneamente – l’accende dal di dentro di noi stessi, ren­dendola tonica, viva, palpitante. La doppia sorgente di luce è in verità una sola; colui che può sperimentare il nesso, accogliendo la sintesi, risplende come tutti i soli e le stelle dell’universo; alimenta la loro intensità; conferma il senso del suo destino.

 

La Pasqua è la festa che celebra il Grande Passaggio; chi ricorda quello del Mar Rosso da parte del popolo ebraico in fuga dall’Egit­to, chi lo preferisce vedere nella transizione tra gli Antichi Misteri e il cristianesimo dei primordi; ma ciò che ci indica Rudolf Steiner, supera e riassume in sé tutte le fasi preparatorie e le relative suc­cessive conseguenze, sia del cielo che della terra.

 

Dall’Evento del Golgota, dalla Passione-Morte-Resurrezione del­l’Uomo-Gesú Cristo, s’innalza per l’eternità il simbolo della Croce: il segno di un Ricongiungimento Compiuto.

 

Questo sia la consapevolezza, la forza e l’obiettivo dell’umano avvenire. Auguri per noi tutti.

 

 

Angelo Lombroni