La prova del nove

Considerazioni

La prova del nove

Prova del nove

 

Chi piú. chi meno, abbiamo conosciuto tutti la “prova del nove”. Sappiamo cos’è. Come funzioni e in base a quali accorgimenti è però un altro paio di maniche. Ma tale trascuranza non richiede immediato approfondimento, se non per quanti sostengono di non adoperare alcunché se non prima d’averlo com­preso in modo esaustivo dalla a alla z. Cosa sulla cui possibilità avanzo molte ri­serve, dal momento che usiamo dozzine di oggetti e facciamo funzionare altret­tanti meccanismi, davvero complicati e misconosciuti, col semplice convinci­mento che premendo il tasto verde sentirò il click del tostapane e premendo quello rosso una voce amica m’informerà sulla data, sull’ ora, sulla temperatura esterna e sul santo del giorno.

 

In effetti conosco ben poco di tutto ciò che abitualmente uso, ma mi comporto con la stessa immar­cescibile, paciosa sicurezza di chi sa le cose a fondo e non ha bisogno di ulteriori chiarimenti.

 

Naturalmente le cose non stanno cosí; basta la raccomandata di uno studio legale, o la comparsa di una macchiolina sospetta sulla pelle, per distruggere il sottile involucro delle certezze, indurci a compiere il faticoso “giro degli esperti” ed arrivare al punto in cui si alza il sipario sulla commedia, tutta umana, delle “preoccupanti evenienze” e delle “incresciose probabilità”.

 

Un mio caro amico, proprietario di una lussuosa e antiquata Mercedes, accortosi che la macchina subiva una perdita di potenza elettrica, causa di seccanti difficoltà di marcia, aveva portato la vettura presso la locale Concessionaria Mercedes: una specie di tempio italo tedesco in fatto di meccanica raffinata, precisione teutonica, servizio inappuntabile e di alta cortesia, o per lo meno alta quanto la fattura della revisione.

 

Dopo una settimana di test, controlli e ispezioni, i camici bianchi emisero il loro verdetto: «È vero; senza dubbio questa macchina ha delle dispersioni di energia nell’impianto elettrico». Cosí il mio amico dovette pagare un conto salato per venire a sapere ciò che in precedenza aveva già saputo gratis.

 

Il chi mi conferma che la verità, e cosí la libertà, pur non avendo un prezzo, possono tuttavia costar caro.

 

aggeggi elettronici

 

Con la prova del nove abbiamo costruito un espediente matematico di verifica che permette di stabilire con una certa celerità l’esattezza del prodotto di una moltipli­cazione. Oggi, con tutti gli aggeggi portatili micro-info-tele-radio compatibili, una tale prova fa sorridere, ma c’è stato un tempo in cui la prova del nove veniva adoperata spesso, anche da operatori esperti, e aveva un suo valore.

 

Per amore di precisione è doveroso aggiungere che la prova ha il suo piccolo neo d’imperfezione; se è negativa, il prodotto esaminato è di certo sbagliato; ma se riesce, l’esattezza non è garantita; quanto meno – dicono attual­mente gli esperti provanovisti – su cento esiti positivi, undici potrebbero non aver rilevato l’errore insito nel calcolo della moltiplicazione.

 

Son cose che succedono a questo mondo cosí convulso, smanioso di precisioni millimetriche e tuttavia spaparazzato su quelle macroscopiche.

 

Cosí mi è accaduto che una mattina appena desto, mi sono trovato con una domanda piuttosto scon­certante: “Perché l’uomo dovrebbe credere con maggior forza nelle cose che sa già essere artefatte, finte, studiate e costruite appositamente, magari per comodità o per convenzione, e non in quelle che contengono invece delle verità lapalissiane e ben controllabili?”.

 

Esemplifico: oggi il calendario dice che è martedí 1° agosto 2023, e l’orologio segna le ore 10.35.

 

Cosa vuol dire? Da un punto di vista della logica strettamente realistica, non significa nulla; per me, e per l’umanità, è un espediente studiato e affinato nel tempo, onde agevolare e sintonizzare azioni, decisioni e comunicazioni.

 

Al pari dei fusi orari e delle coordinate geografiche, le date e le ore sono utilissime, qualche volta servono pure ad evitare o limitare situazioni difficili e incresciose. Ma di per sé non stanno in piedi, non si reggono, se non in presenza di una coscienza che abbia deciso di stare al loro gioco, di ascoltarle e di seguire le loro regole (che poi sono quelle che abbiamo inventato noi).

 

M'illumino d'immenso

 

Quale fu la posizione interiore, in cui venne a trovarsi il poeta Giuseppe Ungaretti che lo spinse a scrivere il suo “M’illumino d’immenso”? Aveva scrutato il calendario? Si era ispirato all’orologio? Era stato sopraffatto dalla bellezza dei meridiani e dei paralleli? O colto da una improvvisa ammirazione per la Linea del Cambiamento delle Date?

 

Mi riesce difficile crederlo. So che nell’essere umano tra le mille cose che anima e corpo racchiudono e con­servano, vi è anche la possibilità (intendo una possibilità naturale, spontanea) di stupirsi, di venire totalmente rapiti dalla forza della verità, che simile ad un fulmine a ciel sereno, giunge a travolgerci fino al punto di rivoltarci come calzini e di farci rinascere con una nuova visione della vita e del mondo. Sovvertendo cosí tutte le leggi e regole acquisite attraverso faticose lezioni di cultura e di dottrina.

 

Basta un’alba sorgente tra le montagne in una stasi della violenza di guerra, e un fiore può nascere cosí come un verso immortale.

 

Potrei a questo punto citare quanto accadde a san Paolo sulla strada per Damasco; sarebbe una con­nessione pertinente. Ma la ritengo una storia troppo elevata per promuovere un convincimento che, oggi come oggi, non può che trovarsi nel mezzo di un’incredulità generale, poco propensa a cogliere quel che in definitiva ritengo essere il “miracolo” dell’atto conoscitivo.

 

Eppure, anche qui c’è la prova del nove; un conoscere che si limiti a restare un fatto mentale, o un guizzo di calore animico, o un momentaneo impulso volitivo non è un vero conoscere, è un accogliere con favore, magari anche con gioia, qualcosa che alletta la sensibilità personale in uno dei suoi vari indirizzi.

 

Per cui il mio interrogativo sembrava venir chiedere proprio a me, se fosse possibile trovare una prova del nove, non solo per le moltiplicazioni, ma anche per tutte le vicissitudini umane cui si va incontro; che possa confermare, di volta in volta, la validità, l’esattezza di quel che abbiamo fatto in quella data circostanza, sia per quel che riguarda l’azione svolta, sia per il moto di decisione interiore che l’ha preceduta e accompagnata.

 

Valutai in un primo momento assurda la proposta; la prova del nove funziona (e non sempre) solo per la moltiplicazione. Cosa c’entrano le vicissitudini umane con un’operazione aritmetica? Tanto varrebbe parifi­carle anche alle addizioni, sottrazioni, divisioni, radici quadrate ed elevazioni a potenza!

 

Ripensando, tuttavia, dovetti convenire che – pure se non appare chiaramente all’inizio – ogni situazione di vita umana (esteriore e interiore) trova nella moltiplicazione una sua segreta e misteriosa corrispondenza; la nostra anima s’immischia e frammischia di continuo negli eventi, negli incontri con ciò che è altro da noi, e reagisce di conseguenza.

 

Qualcosa di fuori viene ad attaccarsi dentro e viceversa, qualcosa di noi si riversa sul mondo, sull’altro, sulle cose, e in questo reciproco darsi-e-ricevere nasce uno scambio che se si vuole simboleggiare sintetica­mente, solo la moltiplicazione riesce a cogliere.

 

Ogni prodotto è creatura di due fattori; un composto che porta il carattere di entrambi, pur presentandosi distinto e formalmente diverso. Cosa questa non possibile per tutte le altre operazioni di matematica elencate prima. Cosí almeno mi venne da pensare allora, e per quanti dubbi possa aver avuto in seguito, tale riflessione continua ancor oggi a sembrarmi solida e convincente.

 

Per cui, la prova del nove – quella che vale per tutte le evenienze in generale e confermare la giustezza dell’atto conoscitivo in particolare – da qualche parte deve esistere.

 

Molti anni fa, comperai una Fiat 124 Spider (di terza mano) e non vedevo l’ora di girare per la città, ovviamente col tettuccio abbassato, e farmi vedere in giro, nei luoghi e nelle ore dello shopping e del­l’aperitivo, dove sapevo confluivano in massa habitué e perditempo. Per un po’ provai una specie di strano gusto, un misto di ebbrezza/stordimento nel guidare lentamente per le vie del centro e sentirmi ammirato mentre facevo la passerella.

 

Adesso il vecchio ricordo è archiviato nel mio reparto vintage, sotto la voce “ruggiti di topo”; ma a quel tempo, l’esperienza cercata e voluta mi apparve una conquista.

 

Mi chiedo: è lecito considerare quell’imbarazzante intermezzo alla stessa stregua di un atto conoscitivo?

 

E mi rispondo: perché no? Dipende dal tipo di conoscenza che si vuol conseguire.

 

L’esperienza della vanità è un atto conoscitivo a tutti gli effetti se prima si è deciso di compiere questa esperienza sprofondando volutamente nell’incanto della vanità. Se invece all’inizio di tutto non c’è stata una ben chiara volontà cosciente di quel che si desidera fare, e di conseguenza si è entrati in un sogno ad occhi aperti, trasportati sulle ali chimeriche della bramosia, allora siamo esattamente agli antipodi, e il risultato non può essere altro che un ulteriore imbrigliamento nel guazzabuglio animico.

 

Tutto dunque può essere conoscenza; ma a monte ci deve essere un preciso netto impulso morale che diriga verso l’esperienza; altrimenti l’azione derivante resta bloccata nel nozionismo, nella pratica mondana, magari diviene un sapere, una metopa culturale. Ma ci mantiene comunque belli stretti e ancorati al suolo, parlando in senso evolutivo, anche se il lato oscuro dell’esperito ci fa per un momento credere di volare alti in un cielo incredibilmente azzurro.

 

Quindi se vogliamo davvero sapere quale sia il grado di libertà con il quale affrontiamo il caleidoscopio delle nostre vicissitudini, dobbiamo ogni volta eseguire la prova del nove, accontentandoci di saper già in partenza che in caso di negatività l’azione o l’atto da noi conseguito non sarà libero e neppure farà parte di quella conoscenza capace di plasmare l’anima.

 

Se per contro la prova darà esito positivo, sarà bene non fidarsi immediatamente del risultato e osservare con attenzione come si disporranno le cose che ci riguardano da vicino nei tempi immediatamente successivi; l’atto conoscitivo è simile al seme di una pianta; non può dare piú di quel che è, ma potrebbe nascondere qualcosa che porta in sé e che ha bisogno di un lungo periodo per maturare e presentarsi ai nostri occhi come un fiore sbocciato alla luce del sole.

 

Le luci e i colori dell’Arte nelle fiabe illustrate da Marco Maurizio Rossi

Le luci e i colori dell’Arte nelle fiabe illustrate da Marco Maurizio Rossi

 

Una notte di molti anni fa, sentii alla radio un pensiero sull’arte che mi piacque moltissimo. Cos’è l’Arte? Come la si può definire? Ri­sposta: «L’Arte è tutto ciò che di colpo accende l’anima con tutte le sue luci, la riscalda con i suoi colori e subito dopo l’abbandona, lasciandola nell’enigma di mille dubbi».

 

Oggi applicherei questa frase alla Conoscenza, ma con una corre­zione piú lusinghiera: «La Conoscenza è tutto ciò che può colmare l’anima, accendendo le sue luci, scaldandola con i suoi colori, e subito dopo trasformandola in un altare, intimo e preziosissimo, presso il quale trovare coraggio e conforto ogni volta che si presenterà il bisogno».

 

«Di fronte alle decisioni, di fronte alla necessità di agire imme­diatamente, di fronte alle scelte piú ostiche e drammatiche, sappi essere Maestro della tua anima e Allievo della tua Coscienza».

 

Perché tirare ancora una volta in ballo la saggezza antica di Gialal Al-Din Rumi? Perché il suo pensiero precorre i tempi evolutivi e contiene in prospettiva un paradigma gnoseologico, che in seguito, grazie all’Antroposofia di Rudolf Steiner, può venir conseguito da quanti hanno voluto riporre nella ricerca interiore il significato piú alto della loro vita.

 

Sono giunto alla conclusione che in quel paradigma si nasconda la prova del nove, quella che dal mio punto di vista, dovrebbe essere in grado di far cogliere, all’occasionale ricercatore del pensiero, la veridicità del percorso impiegato e quindi del risultato ottenuto.

 

Ma, ho piacere ripeterlo, se non avessi avuto l’apporto della Scienza dello Spirito, ovvero del pensiero steineriano (al quale devo e voglio aggiungere quello di Massimo Scaligero) non avrei di certo potuto ese­guire la semplice connessione che solleva la realtà transitoria umana all’eterna verità dello Spirito.

 

Un giorno incontrai una coppia di fidanzatini, in procinto di sposarsi; mi rivolsero una domanda che evidentemente, in quel particolare momento, appariva loro della massima importanza: «Come fare per conoscersi e amarsi sempre di piú per tutta la vita?».

 

Compresi subito che non era il caso di produrmi in risposte standard e/o convenzionali. (In occasione della mia Prima Comunione, una gentile amica di famiglia, mi regalò un libriccino molto bello, impreziosito, tutto bianco e dorato da sembrare un confetto. Nella pagina iniziale, con una grafia svolazzante tipo rococò, aveva scritto: “Sia questo un giorno di Sole di cui un raggio di Luce illumini il sentiero della tua Vita!”. Mia madre e mia zia ci piansero su per la commozione; io, non so, non saprei dire, ma mi pare che ne rimasi lievemente disgustato o quanto meno disturbato. Segno che la dolcezza quando è dialettica, pomposa e ritualistica, spiace anche ai bambini, che pure sono ghiotti di dolciumi e caramelle. C’è un limite a tutto).

 

Risparmiai cosí alla giovane coppia le melensaggini d’uso (che tra l’altro non fanno parte del mio repertorio , anche se talvolta – confesso – costretto dall’occorrenza, e sotto il giogo dell’incarico fiduciario, ne ho attinto qualcosina anch’io).

 

Trovai in me una risposta che sentivo ad un tempo strana e sincera (anche questa è buffa! Chissà perché le cose sincere ci appaiono strane; c’è da pensarci su; mi sorge un sospetto per quelle normali, però mi trattengo per non deviare dall’argomento principale).

 

Ancor oggi, passati nove anni, non ho capito bene se gli sposi abbiano colto nella risposta il senso cercato, ma dal momento che mi lasciano tenere spesso i loro due meravigliosi pargoli, i quali mi chiamano “nonno”, coltivo buone prospettive).

 

Anche loro, in vista dell’unione di coppia, cercavano una possibile prova del nove e venivano a chiederla a me, che tra l’altro avevo alle (e sulle) spalle un vincolo matrimoniale spezzato da tempo. Ma i misteri non appartengono soltanto alla Jungla Nera; col beneplacito di Emilio Salgari pure nella vita comune ce ne sono parecchi, ed è un bene l’averlo presente.

 

Per cui, preso un foglio di carta, vi tracciai un segmento orizzontale denominandolo A B. Davanti al loro sguardo incuriosito e un po’ preoccupato, segnai la mezzeria del segmento con la lettera C.

 

Cercai poi di spiegare (il bello era che non sapevo assolutamente quel che stavo per dire, eppure ero perfettamente sicuro di saperlo dire e per giunta anche in modo estremamente chiaro) il senso del disegnino, illustrandolo cosí: «Vedete, qui sulla carta c’è il segmento AB; A e B sono i poli, i punti d’ inizio e di arrivo; tra loro scorre sempre una tensione, che nessuna geometria potrà mai svelare. Ma è una tensione, e come tutte le tensioni può essere positiva (buona) o negativa (cattiva). Questa tensione non è cancellabile in alcun modo; piú che una tensione essa rappresenta una corrente di vita; ha quindi un’importanza particolare e bisogna tenerla nella giusta considerazione; quando la corrente che parte da A per effetto della reciproca attrazione incontra quella proveniente da B, possono accadere molte cose; se vogliamo che i due opposti non si scontrino, ma si incontrino nel senso migliore della parola, allora la logica del mondo e quello del suo moralismo globalizzato, ci dicono che esiste un punto di mezzo, C, il quale rappresenta proprio questo voler incontrarsi per costruire qualcosa di buono assieme.

 

Ma il punto C è anche il punto in cui molti dei nostri onesti propositi s’infrangono; non di rado, vengono perfino calpestati; perché la “mezzeria “, il nome stesso lo dice, non è mai l’Accordo degli Accordi, ma sempre l’accordo delle “mezze misure”; io cedo qualcosa a te e tu in cambio cedi qualcosa di tuo a me; e speriamo che tutto vada per il meglio. Questo “meglio” invece si guarda bene dall’andare nella giusta dire­zione: il nostro punticino C segna solo tristemente l’umana incapacità d’essere la struttura portante di una casa umanamente abitabile e sostenibile.

 

Triangolo isoscele

 

L’accordo conseguito in tale misura si rivela nel tempo un espediente, un pate­racchio, una mistificazione della verità, recitata male e pertanto impossibilitata a fun­gere da architrave ad alcunché. Se cercate la stabilità, la solidità della casa e della famiglia, dovete innalzare il punto C in linea verticale, il piú possibile al di sopra di A e B. Troverete quindi il suo corrispondente perpendicolare C1 (il quale, se vi piace, congiungendolo poi con A e con B, andrà a formare un triangolo isoscele, ma questo ha poca importanza).

 

Per innalzare il punto C e renderlo vertice (C1) del disegno, bastano pochi tratti di matita; ma per farlo davvero nella vita di tutti i giorni non esistono matite: dovrete farlo voi, di vostra iniziativa, con tutta la migliore volontà che riuscirete a tirar fuori dalle vostre persone, e questo sforzo – perché è di uno sforzo che si tratta – ha un nome ben preciso: moralità. Se l’amore che oggi vi unisce le anime, crescerà e si svilupperà sotto la luce guida dell’Idea della Moralità, allora siate certi che la vostra unione reggerà, e reggerà bene, qualunque sia l’urto dell’esistenza che andrà ad intercettarla».

 

Fin qui, da come ho tentato di descriverla, la mia prova del nove sembra una via di mezzo tra un rompi­capo e un problema di geometria, ma la frase del saggio persiano Gialal Al-Din Rumi, citata poco fa, favo­risce a ripercorrere l’intero paradigma; la Scienza dello Spirito ci aiuterà poi a concluderlo in modo non convenzionale.

 

Al posto di A e B, poniamo dunque i due concetti base di Al-Din Rumi: “Maestro dell’anima” (A) e “Allievo della Coscienza” (B). Si può adesso affermare: «Per molti l’insegnamento è tutto qui. Non c’è bisogno di alzare il punto di mezzo da C a C1. Se ti comporta nel modo indicato sei già una brava persona».

 

È vero; ma questo non c’entra nulla con la ricerca dello Spirito, né con la conoscenza dei Mondi Superiori. Il mondo è pieno di brave persone, che ogni giorno creano e intrecciano accordi e intese tra loro, ma tuttavia favoriscono in qualche modo, a volte senza accorgersene, l’andamento generale prodotto da quelle meno brave.

 

Il sollevamento dell’asticella morale che porta al vertice C1 non è un optional. L’anima può trovare il Maestro, la coscienza può orientare l’Allievo; ma sopra di tutto, vige – e vigila – il punto superiore: “l’Io Sono”, ovvero il Riferimento in assoluto del genere umano; senza di quello, qualunque tentativo di elevazione morale è inutile, proprio quanto è inutile il punto C, quello dei mezzi accordi, degli armistizi patteggiati, dei “venímose incontro” con le riserve del caso, e via dicendo.

 

Il Maestro dell’anima è sicuramente un punto di base; l’altro è essere Allievo della propria Coscienza. La partenza non può che essere questa. Ma sia Rudolf Steiner che Massimo Scaligero hanno dato tutto quel che avevano per farci intendere la necessità d’andar oltre: oltre gli accordi pro tempore, oltre il sapere nozio­nistico, oltre il moralismo comune; che non è mai moralità, ma solo incipiente progresso di una individualità ancora in via di formazione; la quale, o prosegue la sua crescita tramite una conoscenza maggiormente mirata e responsabile, oppure rimane quel che è: un valore incompiuto con il quale si tenta di affrontare un mondo che invece sa come compiersi ogni giorno. E lo fa a spese nostre, non per un malvagio proposito di parte, ma per debolezza intrinseca dell’anima umana.

 

L'Io Sono

L’Io Sono

 

Nell’acquisire il concetto di Io Superiore (e come passo ulteriore quello dell’Io Sono, che in sostanza è il primo totalmente rivolto al Cristo Gesú) si pone alla portata di tutta la struttura dell’uomo, vissuta nel pensare-sentire-volere spiritualizzati, l’esistenza di una prova con la quale poter rimisurare ogni precedente assunto, di integrarlo e renderlo percepibile come significato primo della vita del­l’essere, di quella dell’esistere e del volersi evolvere dal­l’una all’altra.

 

Ho sperimentato questa prova; l’ho ripetuta piú volte, e ha funzionato. Non rivelo se i risultati ottenuti siano positivi o negativi, perché questo ha valore solo per il sottoscritto. Voglio invece illustrare il procedimento, perché essa è un cri­nale, uno spartiacque tra due versanti che corrispondono a due diversi modelli conoscitivi.

 

Quante volte abbiamo assistito ai vari uomini di governo e/o parlamentari parlottare tra loro, coprendo accuratamente la bocca con una mano, onde impedire l’even­tuale lettura del labiale da parte di qualche cronachista avventuroso? Come valutare? Senza la triangola­zione, la cosa appare logica e sensata. Dopo la triangolazione (o prova del nove) risulta evidente che chi si comporta cosí ha qualcosa da nascondere.

 

Quante volte abbiamo veduto che per difendere il cosiddetto diritto all’immagine, video e foto “sgranano” i volti di coloro che devono essere protetti dalla legge in vigore? Senza la nostra prova del nove, anche questo lo si annovera tra i fattori specifici del progresso e dell’etica professionale. Mediante la prova invece veniamo indotti ad un ragionamento diverso: come mai, nel caso di migranti, extracomunitari, o personaggi scono­sciuti appartenenti a livelli sociali piuttosto bassi, una simile premura non viene prestata, e i loro volti ab­bandonati allo sguardo indiscreto del pubblico?

 

Le recenti leggi del Lavoro, promosse ai fini di un recupero immediato del mercato edilizio, hanno concesso Bonus e Superbonus a destra e a manca, sí che oggi l’intera nazione è oramai retta su deturpanti ponteggi, nel tentativo dichiarato di rendere piú belle e sicure le nostre case. Considerato e visto dalla semplicistica mezzeria del punto C (venímose incontro) il provvedimento è stato accolto favorevolmente specie da quanti traggono dal settore i loro profitti.

 

Se vogliamo però essere maggiormente precisi (anche a costo di diventare antipatici) e si guardano i risultati finora ottenuti, ho l’impressione che il lato positivo dell’operazione sia stato gravemente inficiato da una fitta serie di abusi ed eccessi, tali da rendere il tutto una specie di “commedia all’italiana”, dove le facciate ben intonacate bastano per allietare momentaneamente la visione e l’opinione pubblica. Contro lo strapotere della pubblicità, in tutte le sue invadenti (e indecenti) varianti è stato istituito un Registro Pubblico delle Opposizioni, onde contenere l’assalto, da parte dei media, di volantini, di telemarketing e propagandisti porta a porta. Naturalmente ho aderito con entusiasmo pensando “Ecco finalmente una cosa buona!”.

 

Adesso vengo comunque disturbato al telefono, sul PC, alla Radio- TV, e da un volantinaggio im­pertinente che fa straripare la cassetta delle lettere, in quanto è sí, stato fatto divieto di fare pubblicità a chi abbia espresso il suo preventivo diniego, ma la regoletta vale solo da telefono a telefono sul territorio nazionale; nulla vieta farlo mediante call center esteri o con registrazione telefonica predisposta.

 

Fatta la legge trovato quindi l’inganno? No. È solo questione di triangolazione: manca la coscienza morale, sia per chi opera nel senso descritto, sia per chi la subisce credendola una seccatura necessaria ma inevitabile per il progresso e lo sviluppo civile.

 

Massaggio cervicale

 

La mia compagna è affetta da quasi due anni da una patologia neurologica degenerativa, per cui le è stata riconosciuta l’invalidità da malattia, con estensione all’handicap motorio. Tra le molte terapie che ci sono state prescritte dalla Sanità Regionale, le è stato riconosciuto il diritto di avere gratuitamente dieci sedute di fisioterapia presso un isti­tuto convenzionato. Cosí per dieci giorni di fila, con sedute da qua­ranta minuti l’una, le sono stati praticati dei massaggi alla zona cervi­cale, da parte di un giovanissimo operatore (il quale non si è neppure preso la briga di leggere con attenzione tutta la pappardella di docu­mentazione medica, che abbiamo esibito e che ci è stata esplicitamente richiesta) col risultato che – a prima vista – le cose sono rimaste esatta­mente al punto di partenza.

 

Una mente che ami il compromesso al punto di giocare al ribasso, può dire in questo caso: «Vabbè! Non è servito molto! Ma è stato gratis!». Oggi l’avverbio “gratis” è diventato una parola magica con la quale tutto può essere giustificato.

 

Invece chi si arrampica sulla pertica della coscienza morale, scopre uno squallido altarino tra le dispo­sizioni della Sanità e l’attuazione delle medesime nei luoghi della somministrazione del servizio. Quel che importa (a tutti, dai livelli superiori alle sedi locali ) non è la cura del paziente, ma il poter dimostrare che qualcosa di buono è stato fatto e per giunta a totale carico dell’amministrazione.

 

Per cui la coscienza incosciente potrebbe anche dire, come nella vecchia canzonetta di Celentano: «Grazie, prego, scusi, tornerò!». Ma quella che la sovrasta, quella che legge dietro le righe, quella che rifiuta gli spropositi ma pone l’indice sui soprusi (supponendo che per una volta non sappia, non voglia tacere) dovrà pur dirsi: “In che mondo di finzioni sono capitata?”. Tutto ciò è davvero necessario e inevitabile?

 

Forse sí. Forse ci siamo spinti troppo avanti nella ragnatela dei compromessi, per vedere e capire la verità della situazione, eppure l’abbiamo prodotta con le nostre mani; e della quale riteniamo responsabile sempre e soltanto l’altro, o gli altri, a seconda di come tira il vento dell’opportunismo garantito.

 

Ma se si riesce ad innalzare il punto C al livello del punto C1, e passare quindi dalla condizione della Coscienza ordinaria a quella dell’Io, la panoramica comincia a raccontarci una storia diversa da come ce la siamo raccontata fin qui: una storia dell’umanità in cui non esistono “i buoni” e “i cattivi”, ma solo una moltitudine agitata e confusa di anime che vorrebbero poter crescere ma che invece sono costrette alla stasi e al regresso.

 

Il punto geometrico è privo di dimensione; noi però continuiamo a disegnarlo, e nel farlo ci rimangiamo l’assunto.

 

«L’Io che l’uomo dice di essere non è l’Io se non nel pensiero vivente».

 

Tuttavia, nella stragrande maggioranza dei casi, quell’io, che poi è l’ego, ci sta bene pure cosí, angusto, riflesso, disperato, peccatore e penitente ad un tempo; anche nel pensiero comune, anche nel moralismo spicciolo, anche nel fervore mistico.

 

Saper distinguere, saper conoscere non è ancora all’ordine del giorno.

 

Il pensiero col quale Massimo Scaligero apre il suo Trattato del Pensiero Vivente resta una frase di stile che il nostro ego si compiace recitare nei momenti in cui non vuole mostrarsi quale in effetto è.

 

 

Angelo Lombroni