Stare da soli con se stessi sembra non essere piú una cosa piacevole e ricercata. Si desidera la presenza dell’altro, degli altri, magari con il telefonino, in chat, sui social, nelle mail o anche guardando la Tv, ascoltando la radio o la musica in cuffia. In strada si vedono persone camminare parlando a voce alta, a volte agitando le braccia per sottolineare il discorso.
Ho assistito, involontariamente alla fine di un amore, mentre mi recavo a fare la spesa mattutina. Una giovane donna in lacrime chiedeva spiegazioni del perché veniva lasciata, cosí, per telefono: uno strano modo di interrompere una relazione, da lontano, senza guardarsi negli occhi, forse per impedire una possibile riconciliazione.
Restare in silenzio con se stessi è corroborante: si recuperano quelle forze che continuamente vengono disperse nella nostra partecipazione con altri all’impegno quotidiano.
Dobbiamo sempre rendere conto del nostro operare alle persone che ci circondano, ne subiamo il giudizio, espresso o sottaciuto, anche se a volte ne condividiamo volentieri azioni e pensieri. Siamo esseri sociali, e non dobbiamo isolarci. Ma riservarci dei momenti di silenzio fisico e mentale ci restituisce il giusto equilibrio per tornare a collaborare senza tensioni o avversioni. Distaccarci per rimettere al centro il nostro “Io”.
E se durante questo distacco inseriamo la disciplina interiore, torneremo a operare con energie rinnovate e una serenità di spirito che coinvolgerà le persone vicine a noi.
Esperienza vissuta durante un recente viaggio aereo verso la Scozia: alla partenza si era imbarcata una nutrita comitiva di italiani che si recavano a Glasgow per un evento ciclistico internazionale. C’erano i partecipanti alle gare che sarebbero state disputate, con accompagnatori, tecnici e familiari. Tutti chiacchieravano festosamente, e anche piuttosto rumorosamente. Si scambiavano i posti, chiamavano ripetutamente la hostess per richieste di vario genere. Quando il carrello con le vivande e le bibite è passato, molti hanno chiesto alcolici e brindato allegramente, altri invece discutevano animatamente.
La cosa sarebbe continuata cosí fino al termine del volo, se non ci fosse stata una improvvisa turbolenza, con la voce del comandante ad imporre di restare seduti e di tenere allacciate le cinture. Anche le hostess e lo steward hanno interrotto il servizio e si sono seduti. L’aereo continuava a dare forti scossoni e vuoti d’aria. Un silenzio è calato all’interno del velivolo. Tutti in quel momento sono rientrati in sé. Passati cinque minuti o poco piú, l’aero ha ritrovato il suo assetto e tutto è tornato alla normalità. Ma l’atmosfera era del tutto cambiata. Quel ciarlare precedente non è ripreso, e all’arrivo le persone che si erano imbarcate in maniera chiassosa sono scese composte e tranquille. Il loro “Io” era tornato al centro.
Il silenzio e il raccoglimento in sé, anche di pochi minuti, è una terapia, e quando è fatto insieme, rappresenta una feconda terapia di gruppo.
C’è però un silenzio che ha un profondo aspetto negativo, ed è il silenzio di chi non parla ad altre persone, persino nel proprio ambito famigliare, chiudendosi in un mutismo che pesa e intende colpire, che mostra un aperto disinteresse, un voluto isolamento che gli altri cercano di superare ma non riescono a scalfire. Molti drammi di questo genere si consumano nelle case o negli ambienti dove si vive a stretto contatto.
C’è il silenzio di figli che non visitano e neppure telefonano ai genitori da anni, per una colpa a loro attribuita che non riescono a perdonare. Quel mutismo si sbocca a volte solo dopo la loro morte, e allora ci si chiede perché non si era fatto quel passo, non si era interrotto quel duro silenzio accusatore.
Un tempo la religione aiutava a vincere questi blocchi. Si andava dal confessore e questi suggeriva di agire con carità e compassione anche verso chi si presumeva avesse sbagliato. Citava il vangelo e la parabola del Cristo nel discorso della montagna: «Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza nell’occhio di tuo fratello».
Ora si va dallo psicologo, un confessore laico, e per di piú a pagamento, il quale, se non è un illuminato, non farà che sviscerare traumi subiti nell’infanzia, fissazioni attuali e pregresse, incontri sbagliati che hanno lasciato ferite non ancora cicatrizzate, colpe dei genitori o dei partner incontrati e lasciati. Tutto ciò non aiuterà certo a trovare un equilibrio, e a tentare una necessaria riconciliazione.
Ne hanno fatto di danni questi presunti aiutatori, in realtà spesso persone che hanno scelto tale disciplina perché a loro volta disturbate e cariche di quei “complessi” da cui presumono liberare i loro pazienti!
Cosí scrive Massimo Scaligero in quel mirabile libro che ogni serio e sano psicologo o psicanalista dovrebbe conoscere, Psicoterapia – Fondamenti esoterici: «Dagli Psicoterapeuti del presente tempo la dimensione metanoetica della coscienza invero è stata ignorata, onde si sono scientificamente coltivati nella psiche impulsi d’autonomia non riferibili al loro fondamento, bensí alla corporeità, epperò si è confusa la fenomenologia della libertà con quella della istintività. Le psicologie, le pedagogie e le filosofie hanno cessato di conoscere l’organismo dell’uomo come struttura sorretta da gerarchie di forze estrasensibili, operanti parimenti nella Natura e nel Cosmo, secondo un ordine che tende a manifestarsi nella coscienza e la cui conoscenza è il reale principio della Psicoterapia».
Lo psicoterapeuta dovrebbe quindi essere una sorta di novello sacerdote, per poter aiutare a sciogliere nodi, a salvare dal silenzio colpevole e a riportare serenità nei rapporti famigliari e sociali.
L’immagine che mi diede un giorno Massimo, rimasta indelebile nella mia mente, è quella di un calmo lago che riflette il cielo. Lo psicologo che fruga nel passato del paziente alla ricerca di drammi e colpe da attribuire, è come un agitatore della mota che giace sul fondo del lago, facendola salire in superficie a intorbidare l’acqua: questa non rifletterà piú il cielo, cosí come il paziente non farà che rimuginare sul torbido del suo passato, che deve invece restare là dove è decantato, lasciando libera la psiche di affrontare, con luminosa trasparenza, il presente e il futuro.
Ognuno è il vero e unico costruttore di se stesso, senza appigli informatici, telematici o psicoterapeutici. Nel silenzio della propria interiorità, lontano dalle eccessive stimolazioni esteriori – spesso ricercate per tacitare quella che in altri tempi veniva chiamata “la voce della coscienza” – si ritrova la centralità del proprio essere e la soluzione a problemi spesso risolvibili con una generosa disponibilità verso l’altro: si attiva la forza del perdono.
Sulla porta dello studio di Via Cadolini Massimo mi chiese di scrivere con il pennello giallo, sulla porta verniciata di verde, una frase che alcuni ricorderanno, e che intendeva suggerire la giusta atmosfera interiore a chi arrivava: «Pax et bonum. Silentium!».
Marina Sagramora