La preghiera di devozione di Rudolf Steiner

Considerazioni

La preghiera di devozione di Rudolf Steiner

Le sensazioni immediatamente afferrate e interpretate secondo l’onda emotiva dell’entità psichica, si chia­mano impressioni. Quindi sono molto poco obiettive. Eppure non sono rare le volte in cui concediamo alle nostre impressioni uno spazio talmente significativo da credere ad esse come fossero verità rivelate, e di conseguenza prendiamo decisioni anche importanti sulla scorta di una loro presupposta consistenza.

 

Abbiamo un bel dire che al mondo non esiste piú la fiducia; la creduloneria però esiste sempre; eccome! Continua a mietere vittime specialmente quando siamo noi stessi ad alimentarla stuzzicandola con le lusinghe.

 

Compagnia sbagliata

 

Vale per tutti, il caso di una pubblicità televisiva, ultimamente ben rimarcata, nella quale una coppietta di anziani, un po’ timida e riguardosa, si affaccia alla soglia di un lussuoso palazzo, tenendo in mano, lei una teglia con un timballo fatto in casa, e lui una bot­tiglia di spumantino. Evidentemente fiduciosi, ma non troppo, di essere stati invitati alla festa. Da una prima occhiata in giro, però, i malcapitati si accorgono su­bito che quella che si stava consumando in loco non era una di quelle feste a cui erano in qualche modo abituati. Diciamo, con breve eufemismo, che erano capitati nel bel mezzo di una “cena elegante con risvolti burlesque” (celebre frase pronunciata da un noto forense padovano in difesa di un facoltoso assistito).

 

«Roba da ricchi!» serpeggia compiaciuta la vox populi in questi casi. Se qualcuno poi volesse aggiungerci anche l’aggettivo “depravati”, commetterà senz’altro un peccato, ma sarà cosí minuscolo che per vederlo ci vorrebbe la lente d’ingrandimento. Sono quei peccatucci, infatti, davanti ai quali pure i demoni di presidio nell’ego umano fanno una smorfia di disgusto.

 

Il senso della réclame sta nel tentativo d’insinuare nello spettatore il dubbio d’aver sbagliato compagnia. Nel comporre e inscenare la gag, qualcuno deve aver pensato che infilare una coppia di vecchietti sprovve­duti in un contesto stravolgente ogni loro vissuto, fosse l’effetto migliore per centrare l’obiettivo.

 

Non posso dargli torto, anche se mi piacerebbe. Confesso che se dessi ascolto alle mie impressioni, sog­gettive sí ma al pari di quelle altrui – e proprio per questo ultra-convincenti – nel rivedere quella che è stata in linea generale la mia esistenza, mi è facile giungere alla stessa conclusione voluta dal regista o dall’ideatore di quella deprimente confezione pubblicitaria.

 

Perché, mettendo assieme i pezzi sparsi dei fatti accaduti, delle storie raccontate, delle dicerie diffuse e delle notizie sventagliate a raffica, circolanti vorticosamente 24 ore su 24, sinceramente parlando, io non solo ricavo l’impressione d’aver sbagliato compagnia, ma anche d’aver sbagliato pianeta.

 

Quand’ero piú giovane mi piacevano i contrasti; li assumevo come sfide da eseguirsi in modo sportivo, della serie “vinca il migliore”. Ero intimamente convinto della validità del confronto diretto, in primo piano, senza paraventi e senza strategie preimpostate.

 

Tutto cambiò un giorno durante i lavori di un congresso generale di agenti di assicurazioni. Allora era­vamo divisi in due sindacati; io militavo nel piú piccolo, non per mia scelta, ma per il fatto d’esser stato per anni il portaborse di un collega molto ben accreditato, e in seguito alla sua fuoriuscita dagli organi sindacali per motivi di salute di essergli succeduto nel posto vacante di Consigliere di Giunta Nazionale.

 

Tale congresso si tenne a Montecatini e fu a dir poco disastroso. L’avversione e l’antipatia tra i colleghi convenuti da tutta Italia, dopo due giorni di lavori, erano arrivate ad un punto critico; dopo crudi interventi e concioni urticanti, provocazioni e screzi anche di basso livello, l’atmosfera e l’umore conseguiti aveva spinto i convenuti ad azzuffarsi per un nonnulla. C’era di tutto: spie, delatori, quinte colonne, falsi alleati e, guarda caso! anche onesti avversari (vedi tu dove a volte va a cacciarsi l’onestà!).

 

A farla breve mi venne affidato l’incarico di compilare una lista di papabili che ove si fosse fatta la fusione tra le due delegazioni (cosa questa che sapevamo tutti impossibile, ma facevamo a gara nel fingere di crederlo), avrebbero potuto esprimere la nuova giunta nazionale e quindi eleggere di seguito la presidenza e la segreteria.

 

Aiutato da un paio di hostess volonterose e da alcuni colleghi, verso del due del mattino avevamo quasi ultimato il documento; a turno ci siamo concessi qualche minuto di sosta per rinfrescarci e prendere un caffè: a questo scopo, qualche previdente aveva postato nei pressi un tavolino con dei boccioni di caffè americano e bicchieri di cartone, dato che a quell’ora il bar dell’albergo era chiuso.

 

Tornato al mio posto nel salone dei convegni, ebbi una sorpresa: qualcuno del sindacato avverso stava leg­gendo al microfono, per la gioia del pubblico presente, l’elenco che io ed il mio gruppo non eravamo ancora riusciti a compilare del tutto, col risultato che passando per traditori della patria, venivamo adesso guardati con occhi di bragia dai colleghi del nostro stesso schieramento, i quali a questo punto s’erano convinti di una nostra col­lusione col nemico. “Traditori! “Vigliacchi” “Venduti” erano gli insulti piú lievi che ci venivano lanciati contro.

 

Solo alcuni mesi dopo venni a sapere, per via del tutto casuale (sappiamo tutti che si dice cosí quando s’igno­ra l’intreccio degli avvenimenti) che il documento, anche nella sua stesura appena abbozzata, era stato dato in pasto alla platea da un gruppo trasversale di agenti, imprenditori di un certo livello nelle loro città, i cui no­minativi non erano stati approvati dal comitato paritetico per la formazione della nuova gerarchia sindacale. Per vendetta, avevano pensato di sollevare quel putiferio, per poter poi passare piú comodamente ad una mano­vra politica favorevole ai loro interessi.

 

Ripensando oggi alle lotte, ai bisticci, ai contrasti, alle bugie, al fiato sprecato, alle notti insonni e alle parolacce, se non alle efferatezze vere e proprie (erano anche volate delle scarpe sul palcoscenico) di quella bolgia toscana, che avrebbe dovuto rappresentare il ruolo etico-sociale e l’integrità morale di una intera cate­goria di liberi professionisti, non posso che rattristarmi profondamente nell’osservare le vicende che oggi si susseguono, estese non solo al settore assicurativo, ma a tutti i settori della esistenza umana, e che dimostrano come siamo ulteriormente peggiorati in questi ultimi decenni.

 

Adesso, purtroppo, è l’epoca in cui i contrasti non sono piú sfide da condurre sportivamente con dichiara­zione iniziale di lealtà e stretta di mano finale; ora ci si affida alle strategie del raggiro, delle mezze verità, degli inciuci, degli equivoci riequivocati e delle trame ordite con gli aghi del sofisma e ricamati con gli unci­netti della grossolana banalità.

 

Non sono un moralista, non lo sono mai stato. Eppure secondo me anche i malvagi dovrebbero avere un loro stile. Invece in questo mondo attuale, scostumato e incline alla scurrilità, senza sosta strombettano sva­riati miliardi di flati; poi ci chiediamo, seri e preoccupati, perché mai l’aria sia cosí viziata.

 

Non riesco a rintracciare nel marasma generale un tema, un punto, un argomento, sul quale possa ergersi un accordo unanime, stabile e duraturo. Valgono soltanto dichiarazioni evasive: «Sí, però…», «Sono d’accordo, ma…», «Potrei, a certe condizioni…». Oppure tuonano affermazioni altere di stampo maramaldesco: «Non ci piegheremo ai scafisti!», «L’Europa farà la sua parte», «Difenderemo le famiglie e Dio».

 

Cochi e Renato

Cochi e Renato

 

Torna alla mente il vecchio cabaret di Cochi e Renato, quando erano ancora poco conosciuti: ridevano fino alle lacrime (conta­giando cosí gli uditori) nello scimmiottare la finta ritrosia di certe attricette, di fronte ad un giornalista scaltro quanto basta, che le intervistava sul loro possibile futuro artistico; e con un fremito di languida vanità, sostenevano a faccia tosta: «Io nuda? Mai! O for­se anche sí, ma solo per un grande regista!».

 

I politicanti di tutto il mondo sono veramente dei cabarettisti nati, non lo sanno, ma hanno tutti un secondo mestiere in tasca. Mi trattengo dal descrivere come funzionerebbero tali interviste oggigiorno. Ma quella volta (parlo di 40, 50 anni or sono) esisteva ancora un velo, molto tenue a dire il vero e in rapido dissolvimento, che separava la vergogna dall’impudenza, l’ambizione dalla smania di successo, la disinvoltura dall’indecenza.

 

Tutti i veli, però, cessata l’ambigua funzione di far intravedere senza far vedere, cadono miseramente, anche se, dopo, la confusione è peggiore di prima, perché i problemi che dall’etica cadono nell’estetica, diventano insol­vibili e contribuiscono (pure loro!) a mantenere in essere schieramenti contrapposti e irriducibili che straziano i singoli e le collettività, sotto l’egida della “libera opinione” e del “confronto fattivo” tra pareri e discordanze.

 

Il che sarebbe accettabile se, illo tempore, appena uscita nuda dal mitico bagno nel fiume, la Menzogna non avesse indossato gli abiti della Verità, lasciando a quest’ ultima l’alternativa di starsene per sempre in am­mollo. oppure girare per il mondo con la veste dell’infida nemica.

 

Lettere di Berlicche

 

Mi sono convinto che l’uomo d’ oggi, checché ne dica dei confronti, dei gruppi di studio, dell’“incontrarsi per parlare e chiarire”, non abbia alcuna sincera dispo­sizione a farlo, e se lo fa, è per scopi diversi da quelli dichiarati. Forse perché, per quanto esigua possa essere la dimensione di un incontro tra volonterosi, essa richiede sempre una minima organizzazione, e, come è stato illustrato a puntino da Sinclair Lewis nel suo Lettere di Berlicche, là dove sorge un’organizzazione di uomini, là arrivano i demoni che s’impossessano del meccanismo. E noi, colmi di buoni pro­positi e di aspirazioni para-angeliche, ce ne accorgiamo soltanto dopo, quando è troppo tardi e i danni sono già stati effettuati.

 

L’unica cosa sulla quale sono certo di non aver trovato la benché minima possi­bilità di contrasto, personale e/o con altri, e sulla quale regna una concordia unanime, o per lo meno mai resa oggetto di scossoni dialettici, è, per quel che riguarda la mia esperienza, l’aver incontrato e accolto la Preghiera di Devozione di Rudolf Steiner.

 

Pure l’averla presa in considerazione, come solitamente si fa per tante cose che sanno di buono e di pulito, sarebbe un’azione temporanea e infruttifera, se non avessi cercato, agendo nell’arco di molti anni e in molte­plici modi, di applicare quei contenuti alla lettera, ora per ora, giorno per giorno, notte per notte.

 

Non sono un anacoreta, né un iniziando e non sono neppure tesserato alla Società Antroposofica; mi rite­nevo tutt’al piú un “libero pensatore”, ma dopo quaranta e passa anni di esplorazioni esoteriche, coi manuali di Steiner e di Scaligero alla mano, non me la sento di poter oggi giurare sulla completa libertà della mia facoltà pensante. Ho imparato quanti e quali siano i vincoli e i condizionamenti tuttora in corso d’opera. Tra una concentrazione e una meditazione, mi sono piuttosto abituato a riflettere, valutare, considerare, dedicando a questa attività tempi molto piú lunghi e frequenti di come fatto in precedenza.

 

Sopra ogni altra cosa mi sono anche convinto dell’importanza di farlo nel silenzio piú totale; non scrivo di notte sui muri delle case e non intaso i social, dal momento che nessuno potrà mai disintasarli.

 

Per questo mi permetto di sostenere che La Preghiera di Devozione concepita da Rudolf Steiner, è per davvero la Quinta Essenza, il Non Plus Ultra, la medicina fondamentale per l’uomo di questo tempo; né anti­doto, né vaccino: bensí la Cura; la cura contro il Male, contro tutti i mali; la cura per superare i fastidi, le soffe­renze, i disagi e i turbamenti che oggi gli esseri viventi sulla terra sono chiamati a fronteggiare; anche, e soprattutto, per quelli che credono di doverlo fare puntando l’indice contro tutti e contro tutto; mentre il vero unico male del genere umano consiste nel non aver concesso alle parole di Rudolf Steiner l’attenzione che esse richiedevano – e che in questi particolari momenti richiedono in maniera pressante – chiamando in causa la parte piú profonda e nascosta delle nostre coscienze.

 

Resisto alla tentazione di parafrasare quanto scritto da Rudolf Steiner; dal mio punto di vista, questa è una libera scelta individuale. Ma al di là dei metodi che esperienza e cuore possono suggerire in questi casi a chi affronti i contenuti della Preghiera, ci sono alcuni punti di questa che voglio mettere in risalto in quanto s’incastrano perfettamente nelle esigenze interiori dell’uomo del Terzo Millennio.

 

Quando vedi un puzzle mancante d’una tesserina e ne scorgi una caduta a terra, è naturale che ti viene la voglia di raccoglierla e metterla nel posto vacante, perché sai già che ci sono delle ottime possibilità che un tale inserimento completerà il quadro.

 

Per tre volte nelle frasi componenti la Preghiera, leggiamo le parole “PAURA e TIMORE”. Mi sembra un punto fondamentale, che, non condiviso, temo renderebbe vana ogni ulteriore presa di contatto con se stessi e col mondo in cui viviamo.

 

È facile e scorrevole oggigiorno indicare nei turbamenti dell’ansia e delle angosce, i livelli di stress raggiunto. Siamo disposti ad ammetterlo. Ma ci siamo mai chiesti perché questi impedimenti esistono e hanno raggiunto una diffusione capillare? Abbiamo esibito un gran numero di cause e di spiega­zioni articolate, piú o meno scientifiche, ma chissà perché, parole come “PAURA e TIMORE” non hanno avuto successo né tra i curatori né tra i curandi. Anzi, vengono evitate. Infatti c’è una controprova; l’ho fatta di persona ed è per questo che la rivelo senza remore.

 

Provatevi a dire ad un amico stressato, il quale vi abbia reso partecipe delle sue sofferenze, che le sue magagne si riassumono solo e soltanto nella vecchia cara PAURA, quella che fa piangere i bambini al buio durante la notte e che si placa solo con le carezze della mamma. Vedrete che non gli piacerà; magari se ne risentirà al punto che non vi renderà piú partecipe dei suoi problemi psicologici (e sarebbe forse l’effetto minore).

 

Se poi vorrete discuterne con medici e specialisti in materia, avrete l’occasione per osservare che i termini “PAURA e TIMORE” sono consi­derati troppo generici; la scienza pretende che dietro a paure e timori ci siano altre cause ben piú interessanti e circoscritte. E che si possano appel­lare con una terminologia piú aulica e professionale.

 

Sicché succede, come infatti succede sempre piú sovente, che la “banalità del male” (ricordate il libro di Hannah Arendt?) sfuggendo alla critica dei dotti, scivoli fuori dalla loro visuale, e diventi quindi il miglior nascondiglio del male medesimo.

 

Cosa rende in pratica impossibile all’adulto colto, moderno, spregiudi­cato quanto basta e materialista in (quasi) buona fede, di dichiarare aperta­mente d’aver paura? Verrebbe forse espulso dal circolo del tennis? O i suoi congiunti lo dichiarerebbero inabile al ruolo di capofamiglia? La sua car­riera di lavoro ne risentirebbe per “instabilità psicologica non ben identifi­cata”? Amici, conoscenti e colleghi, dopo averlo intrattenuto con qualche convenevole, si scambierebbero furtive occhiatine d’intesa?

 

No, tutto ciò non sarebbe ragionevolmente sopportabile. Meglio fingere, meglio far vedere d’esser coraggiosi, tutti d’un pezzo (ma un “pezzo” di che? Su questo punto nessuno avanza un’ipotesi). L’importante è apparire trasudanti di sicurezza, grondanti di ottimismo e in salute da vendere. In breve: fingere, fingere e fingere.

 

È per questo che siamo nevrotici; come potremmo non esserlo dato lo sforzo immane e la tensione conseguentemente mantenuta per non scoprirci o farci scoprire in uno stato di debolezza, che potrebbe indurre i piú forti e famelici a sopraffarci? Certo, questo è un istinto animalesco, potreste dire, ma se siamo arrivati a questo punto, significa che abbiamo degradato, e non di poco, il limite della nostra “umanità”. Non facciamoci illusioni.

 

Per questo ci ammaliamo, abbiamo bisogno di medici, terapeuti, psica­nalisti, e non bastando anche di maghi, stregoni, indovini, sciamani e carto­manti, purché non lo si venga a sapere in giro.

 

Eppure sarebbe tutto cosí semplice, cosí educato e cortese verso noi stes­si, se attraverso le onde della PAURA e del TIMORE non cercassimo d’impe­dire al futuro di entrare nelle nostre anime. Sarebbe meraviglioso, per noi e per gli altri, se fossimo capaci di andare incontro agli eventi con l’anima in uno stato di profonda quiete e con la placida calma del mare del sentire.

 


 

La preghiera

 

Preghiera di devozione

 

Ciò che verrà, ciò che anche

la prossima ora, il prossimo giorno

mi potranno portare incontro,

sebbene mi sia del tutto sconosciuto,

non lo posso cambiare

mediante alcuna paura o timore.

Io l’attendo con il piú profondo

silenzio dell’anima,

con la piú assoluta calma

del mare del sentire.

Colui che può andare

incontro al futuro con tale calma,

e tuttavia non lasciare venir meno

in alcun modo la sua energia,

la sua forza d’azione,

in costui le forze dell’anima

possono svilupparsi

nel modo piú intenso

e nella forma piú libera.

È come se davanti all’anima

cadessero al contempo

impedimenti su impedimenti,

quando essa viene compenetrata

sempre piú da quell’atmosfera

di dedizione di fronte agli eventi

che fluiscono dal futuro.

La nostra evoluzione viene ostacolata

dalla paura e dal timore,

perché noi, attraverso le onde

della paura e del timore

respingiamo quello che il futuro

vuole far entrare nella nostra anima.

La dedizione a ciò che viene chiamato

“saggezza divina” presente negli eventi,

la sicurezza che ciò che verrà

deve essere, e che in qualche direzione

darà frutti fecondi,

l’evocazione di tale atmosfera

nelle parole, nei sentimenti e nelle idee:

questo è lo stato d’animo

della preghiera di devozione.

Nella nostra epoca

è veramente necessario

imparare a saper vivere

con vera fiducia, senza alcuna

preventiva rassicurazione

esistenziale, con la fiducia

nell’aiuto sempre presente

del mondo Spirituale.

In verità, affinché oggi

il coraggio non venga meno,

non resta che “divenire sovrani”

nella nostra volontà

con la giusta disciplina

e cercare il risveglio interiore

ogni mattina e ogni sera.

 

Rudolf Steiner

 


Sarebbe amorevole e gentile verso noi stessi, gli altri e la vita, se guardando a quanto sta avvenendo vi rav­visassimo, oltre ai lati negativi, anche gli aspetti positivi in esso contenuti; capire come, in quale modo, pure dal­l’evento peggiore, potranno nascere frutti fecondi. Sarebbe davvero un miracolo di apertura animico-mentale, per noi stessi e per il mondo, se avessimo scolpito nella nostra coscienza che l’aiuto dello Spirito è sempre pre­sente e rappresenta una costante incrollabile per ciascuna delle nostre piccole parentesi esistenziali. E voglio aggiungere: quanto sarebbe benefico e rappacificante per l’intera umanità, se cominciassimo a non pretendere piú la quotidiana panacea della “preventiva rassicurazione esistenziale”, di cui invece ci siamo intossicati al punto di necessitarla in dosi crescenti.

 

La Preghiera di Devozione si congeda (anzi, “ci” congeda, perché dopo averla letta, il problema attuativo diventa tutto nostro) con un’ultima indicazione, ma certamente la piú importante, perché – se non adeguata­mente realizzata – ogni suo resto permarrebbe nell’ambito delle pie intenzioni e dei buoni propositi: quelli che puntualmente si trasgrediscono poco dopo l’averli dichiarati. Rudolf Steiner pone l’accento sul fatto che l’uomo, ogni uomo, se porta fino in fondo la sua decisione, può diventare “sovrano nella propria volontà” attraverso una determinata e corretta preparazione interiore. E questa è la prima e unica cosa che conta; la conditio sine qua non, la premessa senza alternative: qualunque azione nata da un diverso capolinea e pur devoluta al bene comune, ancorché amorevolmente e volonterosamente perseguito, si scontrerà sempre con altre di segno op­posto che la manderanno in frantumi.

 

Paura

 

A casa mia, diventare “sovrani nella propria volontà”, significa cancellare la “PAURA e il TIMORE” mediante i quali le forze ostili, grazie alla nostra – non sempre – inconsapevole collaborazione, ci nascondono la virtú del coraggio, dell’animus dei nostri padri, che ri­siede di diritto in ogni essere nato alla luce del sole; ma questo animus, loro, non ce lo fanno vedere, anzi! Lo nascondono, lo abbuiano; ci convincono d’esserne privi! Privi, in quanto “omuncoli “della terra. Ma quel coraggio fa parte di una dote superumana; non è della terra, è del Cielo; appartiene alla Forza del Principio che ha voluto, che ha concepito l’umano e che gli chiede di riconoscersi come figlio. Una forza tale ci può giungere soltanto dall’Io; dal nostro Io, che è lo Spirito resosi Individuale; non imitabile, non plagiabile, non condizionabile. Può tuttavia una tale forza venir ricoperta da strati d’impurità, di sporcizia, d’immondizia, che – ove scarseggi in noi la volontà di ripulire a fondo – si accumulano nel tempo formando una discarica tenace e compatta. Fino al punto in cui ogni tentativo di rimuoverla diventerà vano. Ma dipende sempre da noi. Non da cause esterne o pericoli improvvisi, non da onde perverse di un destino punitivo, poste in atto da rivendicazioni karmiche.

 

Non esistono PAURE e TIMORI che impediscono l’evoluzione delle anime verso lo Spirito; non esistono dubbi o incertezze capaci di provocare tentennamenti e perplessità lungo il cammino; non esistono neppure speranze e illusioni di vivere tranquilli e sereni sempre e comunque in salute e agiatezza. Non esistono, in quanto sono un nulla di concreto. Di queste chimere, di questi sogni fatti e nutriti ad occhi aperti (e coscienza dormiente) esistono invece le rappresentazioni; rappresentazioni non lavorate, incomplete, indigerite; abbozzi conoscitivi incompiuti, che non riusciamo a tradurre in un vero e proprio atto liberatorio, in un atto cognitivo chiarificatore, e che, permanendo insoluti, occludono e ottundono la coscienza pensante; la quale avrebbe avuto il compito di vivificarsi nel cogliere la loro intima verità spirituale di concetti e di idee. Altrimenti, nulla facendo in proposito, alimentiamo di continuo l’equivoco delle rappresentazioni: formazioni temporanee miste di pensiero e percezione, la cui (ir)realtà ci vien garantita solo da uno striminzito pensare, da un pavido sentire, da un esangue volere; i quali, a loro volta incapaci di effettuare un distinguo tra un punto intermedio del percorso e il suo traguardo, non sanno né possono portare a termine quanto dovuto.

 

La Preghiera di Devozione, comunicata da Rudolf Steiner nell’Aprile del 1910, è per l’appunto, al di là del tem­po e dello spazio, una vedetta sopraelevata, dalla quale s’impara a distinguere e dividere una volta per sempre, la verità eterna delle Idee e dei Concetti, dalla consistenza artificiosa e caduca delle rappresentazioni: in altri termi­ni, la pura Luce che risplende eterna nell’Io, dal suo contorto riflettersi nello specchio dell’ego.

 

 

Angelo Lombroni