Il Senso del Tatto

Pedagogia

Il Senso del Tatto

Il senso del tatto ci delimita, e delimitandoci diveniamo capaci di differenziazione.

 

Il mondo ci urta, ed urtandoci ci “sveglia”. È da questo destarci che sorge l’interesse.

 

Eureka

 

Toccando e venendo toccati ci destiamo, qual­cosa in noi esclama: Eureka! La vera scoperta è la coscienza di questo continuo destarci e ad­dormentarci in noi stessi.

 

Il mondo “tocca” il bambino. Cure amorevoli, protezione, attenzioni premurose, piccoli rituali ne accarezzano la pelle.

 

Questo continuo toccare ha la funzione di pro­teggerlo, curarlo… ma anche di risvegliarne il senso del confine, del limite: della forma.

 

Le carezze, la delicatezza sperimentata sulla pelle, risvegliano la coscienza di questo limite ed il bambino può dire a se stesso: “Ah, ecco! Io sono qui e la castagna e là. Io accarezzo una superficie e la superficie mi provoca un parti­colare piacere”.

 

Dalla delimitazione, dalla coscienza di essere delimitati entro una corporeità, nasce il senti­mento della differenziazione, e dalla differenziazione si sviluppa l’interesse. L’interesse tattile del bambino è una sorta di interesse ontologico. Non è un’esagerazione: i bambini conoscono con il tatto.

 

Per gli aristotelici l’essere è nelle cose. I bambini hanno l’esperienza quotidiana dello speculato aristotelico. I bambini direbbero: “Sí, quando tocco la pianta io divento un po’ la pianta: io e lei siamo la stessa cosa ma solo per un po’. Poi torno subito a giocare con gli amici e la mia sorella pianta non c’è piú”. “Mi piace passare le mani su quel legno, quel materiale invece è brutto”.

 

Distanza e vicinanza sono i genitori dell’interesse. Alcune cose ci svegliano altre ci addor­mentano. Verso alcune cose i bambini si rivolgono con simpatia e fiducia, altre procurano diffidenza o antipatia.

 

Il mondo tocca il bambino ed egli può arrivare a comprendere di essere qualcosa di diverso dal mondo: fa l’esperienza della delimitazione.

 

Poi sorge in lui la possibilità di differenziare, di rivolgersi alle cose andando liberamente verso ciò che piú gli aggrada: accarezzare, gustare con il corpo.

 

Ed ora il bambino può dirsi: “Vado verso il mondo con interesse, con gusto”.

 

È da questo momento che nasce la comunicazione. Una comunicazione autentica, anche se non mutuata dal linguaggio. Il bambino non sa dare un nome all’oggetto né alle caratteristiche che glielo rendono amabile, eppure gli va incontro con interesse. Da ciò nasce un dialogo, perché i due sono uniti e diversi.

 

L’attività tattile del bambino, nel suo senso spirituale, è un’attività conoscitiva profonda. Il bambino non sa dire “questo è un pezzo di legno”, ma intimamente lo riconosce come un suo fratello. Un bambino direbbe: “Io e te eravamo uniti un tempo, e adesso siamo un Io e un Tu”. Il bambino ha un ricordo ontologico della sostanza ed una nostalgia.

 

 

Violazione del confine

 

Quando il confine del bambino viene leso, ferito, violato, allora egli non può fare alcuna esperienza di delimitazione e neppure di dialogo.

 

Bimba batte la testa

 

Di fronte ad una bella craniata – come direbbero a Roma contro lo stipite di una porta, in noi non sorge l’aspetto della differenziazione e neppure quello del dialogo. Dopo una botta in testa non sperimentiamo la bellezza del legno e neppure riusciamo a far sorgere in noi l’interesse per la particolare qualità tattile del legno: ci autopercepiamo, ma­gari in modo drammatico e ottuso. Questo accade anche per il bambino. Si rientra bruscamente in se stessi, richiamati dal dolore, concentrati attorno ad esso.

 

Il “confine” può essere ferito anche in virtú di esperienze tattili non appropriate, in virtú di un mondo che “urta ec­cessivamente” contro il bambino (si consideri, ad esempio, la quantità di impegni a cui sono sottoposti i bambini anche al di sotto dei nove anni…) e che dunque porta il bambino ad un’autopercezione ottusa, conclusa unicamente attorno al proprio dolore, al proprio limite violato, ferito.

 

Come già dicevamo, percezione e propriocezione avvengono contemporaneamente. Quindi una propriocezione ottusa sottende ad una percezione rarefatta e viceversa.

 

Quando l’esperienza di dialogo si invera, invece, quando il bambino è pervaso dall’interesse, allora potrà fare l’esperienza della risonanza. L’esperienza della risonanza è la capacità con cui il bambino sperimenta la cosa dall’interno, catturandone la quiddità, l’essenza. Nell’esperienza della risonanza il bambino sperimenta la cosa e contemporaneamente percepisce se stesso.

 

Ricordate le parole di Pavel Florenskij? Nel suo Ai miei figli, ricordando la sua primissima infanzia, cosí scrive: «Pescavamo le meduse coi bastoni. Quei bei fiori dalle corolle opale­scenti colme di luce che dondolavano nell’acqua, delicatamente orlate di viola. Sapevamo che potevano irritare, ma sapevamo anche che cosí doveva essere: non ci si può accostare al mistero impunemente. Quando le tiravamo fuori, si scioglievano sui sassi caldi in un muco senza colore, e non ne restava nulla. Qualcuno ci aveva detto che se si mettevano ad essiccare le meduse tra due fogli di carta assorbente, cambiandoli spesso, rimaneva un reticolo colorato. Non lo mettevo in dubbio, ma mi sembrava una favoletta lontana, mentre l’esperienza diretta diceva che le meduse erano creature di quello stesso mare, fatte dalla stessa acqua e nulla piú, e che perciò nell’acqua nuotavano. …La analizzavamo anche, l’acqua di quelle buche: succhiavamo il dito che vi avevamo immerso e ci meravigliavamo del sapore amaro-salato che sentivamo. Parevano lacrime. E non significava, forse, che anch’io ero fatto di acqua di mare? C’erano corrispondenze ovunque; di qualunque cosa ci si occupasse, tutto condu­ceva sempre e solo al mare. …Nella terra c’era acqua, dentro di me c’era acqua, e anche le meduse erano acqua. …Eravamo diversi d’aspetto, ma tutt’uno quanto a sostanza. Gli anni della mia infanzia e della mia adolescenza li ho trascorsi in una continua, insaziabile e mai paga contemplazione del mare. …E mai il mare ci veniva a noia. Mai la sensazione che ci dava scivolava sull’anima, ma la penetrava ogni volta con tutto il suo essere».

 

Quando invece il mondo urta con violenza il confine del bambino, il bambino non può piú sperimentare il dialogo tra sé e il mondo. Gli toccherà ritrarsi in se stesso: rifuggire, rifiutare.

 

Qui non parliamo di violazioni gravi, di abusi, parliamo essenzialmente della violenta in­tromissione del mondo nella piccola realtà del bambino. Sovraesporre, ad esempio, i piccoli a continui ed eccessivi stimoli (compiti, impegni, corsi, orari di frequenza pre, post e sco­lastica…). Chiediamoci allora perché i temi  del rifiuto e dell’ostinazione siano oggi cosí presenti.

 

La cura della vicinanza e della distanza, la cura di quest’arte della respirazione neuro­sensoriale, costituisce l’essenziale per la cura del tatto.

 

Il precedente articolo concludeva con un aforisma di Giancarlo Roggero: «Il sogno ha la virtú di trasformare le esperienze tattili in immagini».

 

L’aforisma non offre spiegazioni. E di fronte ad un pensiero enigmatico, o aforismatico, non si può che praticare la via della comprensione meditativa, della riflessione.

 

 

Immagine e rappresentazione

 

Ma, chiediamoci, che cos’è un’immagine?

 

L’etimo della parola imago risultava essere, per Marsilio Ficino, in-mago: nella magia.

 

L’immagine è qualcosa che viene dalla nostra interiorità: per ognuno di noi è diversa. Ognu­no genera, ad esempio, la sua immagine di mela in modo totalmente differente. L’immagine la si genera attraverso le proprie forze costitutive, le proprie forze organiche. Dietro queste forze è celata la nostra storia, il nostro essere. Quella semplice immagine è figlia della nostra storia intesa come biografia ma anche come genealogia.

 

La rappresentazione, invece, arriva dal mondo esterno ed ha il potere di imprimersi dentro di noi senza la possibilità di essere modificata. La rappresentazione possiede inoltre una sorta di forza plasmatrice agente, operante. Ogni rappresentazione lascia in noi una sorta di calco, di impressione. Le rappresentazioni imprimendosi, svolgono dunque un’azione: agiscono. Il loro agíto si imprime in modo peculiare nei bambini, la cui costituzione interiore è assolutamente plastica, malleabile. In loro le impressioni arrivano a toccare la fisiologia e, attraverso di essa, la struttura e la formazione degli organi. Un pensiero eretico, questo, poiché non suppor­tato dalla scienza ufficiale. Se l’impressione di una postura scorretta si imprime nel fisico, cristallizzandosi sotto forma di paramorfismo, perché un’impressione piú fine non dovrebbe imprimersi in modo piú sottile nella nostra corporeità? Rudolf Steiner parla approfondita­mente di tale questione nella sua Antropologia (O.O. N° 293).

 

Sal seme all'albero

 

L’immagine nasce dentro di noi, da una memoria pro­fondissima quanto obliata, e viene corroborata da una miriade di fattori contingenti. Secondo la medicina an­troposofica l’immagine si forma sulla base di sostanze eteriche offerte dagli organi, in particolare dal fegato e dai reni. Spesso un’attività organica compromessa o am­malata agisce sul mondo delle immagini. In casi di intos­sicazione, ad esempio, l’immagine diventa fissa, perde il suo carattere fluttuante e leggero, arrivando a diventare perfino colloquiante o imperante (si pensi al delirio da intossicazione).

 

L’immagine si forma dall’evanescenza di queste sostan­ze eteriche che, morendo, arrivano a lambire gli argini della nostra coscienza. Di questo ho parlato approfonditamente in un precedente articolo (www.larchetipo.com/2019/09/pedagogia/sui-disturbi-del-comportamento-degli-educatori-3/).

 

L’immagine è corroborata da tutte le nostre costellazioni psichiche ed emotive. Ogni immagine è immagine del nostro cosmo interiore. L’immagine la formiamo in noi, la produciamo con le nostre stesse forze, con il nostro essere, anche se sarebbe meglio dire: con il nostro “essente”, ossia con quella parte del nostro essere che è continuo divenire, e rappresenta l’attimo in cui tutto succede. Il passato del nostro essente è un’ampia linea genealogica e il futuro è l’anelito, la forza propulsiva del seme che diviene albero, dell’albero che lentamente sposa il cielo. In un’immagine sola c’è tutto questo.

 

Quando il bambino disegna una mela, disegna un universo: il suo. Ma quell’universo è anche un po’ l’universo di ognuno di noi, quello in cui siamo gettati, l’universo in cui potremmo rinascere accettando la biografia altrui come un evento non separato dal nostro. Esistono universi paralleli, ma anche l’abbraccio può divenire un universo. Un universo che non sdoppia né raddoppia ma amplifica la sua sostanza.

 

La poetessa Beatrice Niccolai in una sua poesia scrive:

 

 

Io, poco distante da te,

ingrandisco di un abbraccio

la tua ombra.

Quanti cieli ci siamo persi?

E le stelle erano sempre

il riflesso del tuo sguardo piú grande.

 

 

Un bimbo disegna una mela. La sua mela.

 

Una mela

 

Nell’immagine di una mela è racchiusa la storia millenaria del serpente che tentò un uomo e una donna in un giardino, all’inizio dei tem­pi. L’immagine di una mela racchiude questa storia e tutte le migliaia di voci che l’hanno raccontata e udita. L’immagine di una mela è la summa di tutte le mele, è l’idea con cui un dio ha pensato, un gior­no, alla prima mela, per la prima volta. L’immagine della mela è anche l’immagine di tutti i bambini che hanno disegnato la mela e, disegnandola, han­no perfezionato quell’idea divina pensata mille e mille anni fa. Ci sono i nostri avi, in quella mela, quei nonni che strofinavano il frutto sulle loro ma­glie, nei campi, prima di addentarlo. C’è Newton, e anche Guglielmo Tell.

 

Quando un bambino disegna una mela, disegna la sua mela ma anche tutto questo. E disegnando ci parla della sua storia ma anche della storia del mondo.

 

Ogni immagine è portatrice di terapia, poiché perfeziona il mondo.

 

Il lavoro imaginativo dei bambini è sacro, ma è trascurato almeno quanto il sacro lavoro delle api.

 

Adesso passiamo alla rappresentazione. La rappresentazione è fissa, statica, perentoria. Arriva dal di fuori e non possiamo cambiarla. Non nasce da forze interne ma si insinua in noi prepotentemente e, in un certo senso, dobbiamo metabolizzarla. Sí, la nostra fisiologia deve impegnarsi per trasformare quella rappresentazione, e spesso non è cosa facile.

 

Un mio insegnante diceva che se si chiedesse ai sette miliardi di persone che popolano il pianeta di disegnare una mela morsicata, si otterrebbero sette miliardi di immagini diverse. Perché? Perché ogni persona la disegnerebbe con forze sue, personali, assolutamente diverse, uniche e irripetibili.

 

Mela Apple

 

Se invece si chiedesse di disegnare la mela della nota casa produttrice di computer, allora queste sette miliardi di persone disegnerebbero tutti la stessa mela.

 

Quest’ultima mela è la rappresentazione di una mela e si impone in noi con i caratteri tipici della rappresenta­zione: staticità e perentorietà in primis.

 

Le rappresentazioni sono statiche, si fissano, non si muovono.

 

Per capire davvero la differenza tra immagine e rap­presentazione, però, dobbiamo lasciare spazio all’imma­ginazione. Ciò vuol dire concedersi del tempo per la defi­nizione di un concetto.

 

La strada della immaginazione ha un suo tempo, una sua strada. Potrei forzare la mano, spiegarmi meglio: finirei, però, per offrirvi una mera rappresentazione di quel che sono im­magine e rappresentazione. Ecco il punto! Come si fa a creare immagini anziché rappre­sentazioni?

 

Per James Hillman l’immagine possiede una forza intenzionale: una “presenza emotiva” che offre, quindi, un rapporto emotivo.

 

Il genocidio invisibile

 

A questo punto vorrei lasciare la parola a Silvano Agosti che nel suo libro Il genocidio invisibile – un saggio giovanile stampato solo qualche anno fa – cosí scrive: «Il fatto è che l’essere umano, intorno ai cinque anni di età, si presenta co­me la miniatura di un universo perfetto: chiede il perché di tutto, tocca tutto, si offre a tutti, esplora incessantemente il mondo che lo circonda, si muove senza sosta, gioca, canta, si difende, si dispera fino a ottenere ciò che vuole, e i suoi stessi comportamenti sono un’arte, in quanto coincidono perfettamente con ciò che sente e prova e afferma e nega.

 

Poi questo capolavoro vivente (qualsiasi sia la sua ori­gine) approda nello spazio scolastico e …quando chino sul foglio si abbandona con gioia alla propria creatività e dise­gna ciuffi di ciliegie di forma triangolare di un delicato color rosa, implacabilmente la maestra fa notare che: «No, piccolo mio, stai piú attento, le ciliegie non sono triangolari, sono rotonde». La grande mano della maestra imprigiona la ma­nina smarrita e la obbliga a correggere i triangoli in altret­tanti cerchi. «Cosí… cosí… E poi non sono rosa, sono rosse. Le ciliegie sono rosse!» E da quell’istante ha inizio il percorso della sfiducia in se stessi».

 

Quella descritta da Agosti è la battaglia tra l’immagine e la rappresentazione.

 

Per un bambino il pensare è essenzialmente una forza di fantasia – una meravigliosa capacità di farsi delle im­magini – se questa forza lo avvolge senza sovrastarlo, egli potrà sperimentare realmente l’attività di pensiero consona per la sua età.

 

Il sogno ha la virtú di trasformare le esperienze tattili in immagini.

 

Attraverso il senso del tatto si realizza il primo percepire, il primo “portare a sé”. La percezione della cosa rivela la sua essenza attraverso i meccanismi del sogno, della coscienza di sogno.

 

Il bambino, toccando una rosa, ne entra in profonda, intima relazione. L’osservazione dura pochi istanti e poi il bambino corre via.

 

Se l’osservazione durasse di piú, il bambino rischierebbe di venir “risucchiato” dall’oggetto della percezione, e invece se ne libera al momento opportuno e corre via a giocare.

 

Bimbo con rosa

 

Qualcuno potrebbe opinare quanto sostengo, dicendo: «I bambini annusano, guardano, sentono… Come mai questo primato del senso del tatto?»

 

Come già accennato le prime ricerche di Rudolf Steiner facevano figurare il senso del tatto come una sorta di senso improprio: risul­tante dall’attività di tutti gli altri sensi. Solo successivamente il Dottore corresse la sua idea. Il problema che Steiner dovette fugare riguar­dava l’attività del senso del tatto che è presente costantemente in tutti gli altri ambiti percettivi.

 

“Quelle tue parole mi hanno profondamente toccato”, “Il suo gesto mi ha ferita”, “Mi è sembrato di essere accarezzato dal suo sguardo”… sono tutte espressioni che rivelano l’inerire del tatto entro altri distretti percettivi.

 

Che vuol dire? Vuol dire che il senso del tatto può esser considerato – il senso del toccare e dell’esser toccati (H. Köhler). Quindi ci può “toccare” anche la forma di una pietra o il profumo di un fiore!

 

Durante la giornata il bambino dimenticherà le cose “toccate” e si abbandonerà al sonno, all’oblío. L’oblío è una forma di ricordo, un ricordo rafforzato.

 

Utilizzerò delle espressioni poetiche per spiegare il passaggio successivo.

 

Quando il bambino si addormenta, il suo Angelo lascia dinanzi alla Porta dei Sogni le sue esperienze tattili. Nella rielaborazione notturna esse possono diventare sogni, ma nella pro­fonda coscienza di sogno l’esperienza viene alleggerita, resa sempre piú fine, sottile, fino a diventare immagine.

 

Ricordate la poesia di George Sheadhe?

 

 

Qui l’ombra è una seconda luce

che raddoppia tutto quel che vedo.

Cosí l’ombra di una rosa

è una rosa piú leggera.

 

 

Cosí l’esperienza della rosa è una rosa piú leggera: un’immagine, appunto.

 

 

Nicola Gelo (3. Continua)