In vino veritas

Angelo Lombroni

IN VINO VERITAS

In vino veritas

 

È interessante, a volte sorprendente, come la cosí detta saggezza popolare sia capace d’intuire alcuni aspetti profondi dell’esistenza umana, superando di slancio gli sforzi metodici della psico­logia, ed altre volte invece ripiombi sotto i suoi limiti, in uno dei molti tranelli forniti da una visione semplificata dei fatti e da un’esperienza di vita acquisita in via superficiale.

 

Personalmente non mi pongo al di fuori della moltitudine che si limita alle conoscenze minime e necessarie per il fabbisogno quotidiano, ma, come tutti sappiamo, si cresce (fuori e dentro pure a nostra insaputa) e arriva il giorno in cui, non voglio dire che il bianco diventi nero o viceversa, ma sicuramente quanto prima ci appariva in un certo modo, chiaro e fisso, cessa d’esserlo, e chi se ne accorge, deve in qualche modo porvi un riparo.

 

Questo può suscitare notevole sdegno da parte di amici e compagni che ci avevano fin qui affiancato nella direzione precedente, e non di rado si viene tacciati d’instabilità emotiva, come fossimo dei voltagabbana se non peggio. Il che dimostra ancora una volta che le idee buone, quando penetrano in un uomo che fino ad allora ne aveva solo di poche e deboli, non garantiscono una vita ricca della comprensione altrui, e forse neppure di affetto, specie se i nostri sentimenti tendono a restare quelli che sono e di fronte alla spinta evolutiva di nuovi ideali, si comportano come certi cagnolini un po’ viziati che i proprietari si affaticano a trascinare verso i Wash Dog Center.

 

Sia pure senza esagerare, per quasi quarant’anni ho bevuto vino, alcolici e anche superalcolici; non ricordo d’essermi ubriacato, ma sicuramente ricordo i mal di testa e le difficoltà nello spiccicare le parole, cose che non mi fanno onore. Tuttavia in queste circostanze sono sempre stato fortunato, perché l’assunzione di alcolici oltre una certa misura mi faceva star subito male; con le emicranie arrivava il mal di stomaco, accompagnato da uno stato di spossatezza e di sonnolenza, che mi rammentava ogni volta la disavventura di Polifemo.

 

La ritengo oggi una coincidenza positiva; chi infatti sostiene di trovare nell’alcol una liberazione dalle proprie inibizioni, evidentemente non ha idea di cosa sia veramente l’alcol e a quale funzione siano preposte le nostre inibizioni, che celano in sé una saggezza di vita ancora non rivelata ma tuttavia presente e attiva nel subconscio.

 

Si potrebbe affrontare la questione dell’alcol sotto molti aspetti; e tutti sarebbero sicuramente potenziali oggetti di argomentazione, sia nel pro che nel contro. Quando però decido di scrivere le mie riflessioni, mi piace raccontare quel che ne penso dal punto di vista dell’esperienza che ho acquisito sul campo. Solo cosí sento di potermi raccontare agli altri senza la costante preoccupazione di venir creduto o stracapito.

 

Infatti chi è consapevole di aver esposto esattamente quel che pensa su un tema, e viene contrad­detto o contrastato da altri, potrà al massimo dirsi di non essersi spiegato bene, oppure che gli ascoltatori erano distratti, ma non proverà mai risentimento nei confronti di qualcuno; continuerà a restare amico fedele delle proprie idee, nella convinzione d’esser stato scelto come loro campione e che, ammesso e concesso il caso, quelle gli stanno dimostrando di non aver bisogno – per ora – di ulteriori custodi.

 

Da dieci anni circa, prendo dei medicinali per tenere sotto controllo l’ipertensione arteriosa e il colesterolo; niente di grave, ma considerando anche l’età, le tachicardie e l’artrosi, conseguenza nefasta di una lunga polimialgia reumatica, mi ritengo definitivamente escluso dalle prossime Olimpiadi.

 

Invece il miglior risultato derivante dai medicinali che assumo giornalmente, è la netta repulsione a tutto ciò che contiene l’alcol; o per dir meglio, la repulsione c’era anche prima, ma in fieri; non veniva fuori perché contrastata dall’abitudine, dalle compagnie, dalle occasioni di festeggiamento e dai momenti di sconforto, nei quali perfino alcuni medici (ma non il mio) ti dicono che «Sí! In fondo un bicchiere di vino buono non può far male. Anzi, ti tira su!».

 

E proprio qui sta il guaio; quel “ti-tira-su” è una buggeratura brutta e cattiva (non mi viene da dire “bella e buona” anche se letterariamente appropriata).

 

Nell’alcol una verità c’è di sicuro, ed è quella dell’alcol. Il che vale anche per la droga e per gli psicofarmaci. Ogni cosa ha una sua verità di fondo, palese o nascosta. Piú è nascosta e piú ci si deve sprofondare dentro per toccarla con mano. Ma normalmente quando accade è troppo tardi: ogni tentativo di risalita diventa difficilmente praticabile.

 

Un bicchiere a tavola

 

Anche con un solo bicchiere di vino o di birra a pranzo o a cena, sentivo subito che nella mia volontà qualcosa stava andando storto: perdevo lucidità, m’infiacchivo. E non mi riusciva piú di comporre le connessioni tra i miei pensieri come avrei voluto; o meglio, mi venivano male, distoniche, prive d’armonia.

 

In sostanza, tendevo a diventare antipatico a me stesso; e questo non solo mi affliggeva, influendo poi su tutta la mia vita di relazione e di lavoro; come se non bastasse mi creava una seria difficoltà anche nelle cose piú banali, come fare una passeggiata con un amico, o leggere il giornale, o peggio ancora guidare l’auto. L’umore cattivo è veramente il peggior compagno che si possa avere accanto.

 

L’uso di bevande alcoliche non provoca solitamente il cattivo umore, ma rende peggiore quello che già c’è.

 

Cosa stava succedendo? È semplice; era arrivato il momento (il mio momento) di capire, di afferrare l’Idea, e quindi di smettere subito con le vecchie abitudini, anche se ritenute innocue o poco meno, e ascoltare invece la voce della propria coscienza che, in questo caso, parlava con palpabile chiarezza, anche per conto dell’intera organizzazione psicofisica.

 

Perché negli anni in cui mi comportavo con la disinvolta baldanza di chi crede di sapere e di poter governare il suo piccolo mondo mediante una serie di compromessi che avrebbero la pretesa di assimilare il cotone con la seta, io seguivo da vicino la Scienza dello Spirito, praticavo gli esercizi previsti, e frequentavo molte riunioni organizzate dagli amici che condividevano con me questo impulso. Parecchi di questi incontri avvenivano nella mia abitazione.

 

Lentamente, molto lentamente (ma ogni anima ha i suoi tempi di maturazione) le idee di Rudolf Steiner e di Massimo Scaligero si facevano strada in me; l’adesione ad esse tuttavia non poteva essere immediata; doveva scontrarsi, consumarsi, secondo la mia caratteristica zodiacale, senza troppa irruenza, ma tenacemente, con la vita del mio ego, con le sue pretese e le sue rivendicazioni.

 

Fino al punto in cui, ti accorgi d’esser stato fin qui ricoperto da una scorza antica, utile per lungo tempo, ma oramai imbruttita e logora, e nel contempo mi veniva dato di capire, anzi, qui devo dire “mi veniva fatto di capire” (perché una comprensione capace di essere accolta in modo equivalente dalla struttura umana, è un fatto e non una cosa che si riceve magari in regalo) ch’era giunto il momento, dopo aver ceduto per molti anni alle mille inclinazioni dell’ego, di far vivere in me una chiara richiesta dell’Io, perché la mia vita me lo richiedeva in maniera precisa.

 

Un fatto, un accaduto, ha questo di bello: che è ineluttabile. E non è neppure capibile, in quanto la sua stessa consistenza sta nell’esser stato capito. Ti accorgi d’essere cambiato, cresciuto, e che gli abiti vecchi non ti vanno piú bene, a meno che non desideri fare un po’ il pagliaccio per divertire gli altri. Il che ogni tanto non guasta.

 

Clown bevitore

 

C’è tuttavia una differenza sostanziale tra ciò che vuole agire da pagliaccio e quel che muove un soggetto in preda ai fumi etilici, e che ingiustamente, alcuni definiscono “ubriaco fradicio”: è la medesima differenza che intercorre tra un comico che sa raccontare bene le storielle allegre, lo fa nei momenti giusti, con l’atmosfera pertinente e rivolto ad un pubblico disposto a sentirle, e chi invece, dopo lunga bevuta, perduto ogni ritegno, nelle situazioni piú assurde, spiattella a sconosciuti imbarazzati se non disgustati, che non hanno alcuna intenzione di ascoltare le sue bravate intime e i suoi tormenti meno nobili. Entrambi sono esseri umani; ma il primo non ha bisogno dell’alcol per divertire; il secondo, non può starne senza, e vorrebbe farsi compiangere senza riuscirci.

 

La veritas del vino con cui ho intitolato queste pagine, è pertanto una verità in cui si può credere soltanto se si tiene conto che ogni cosa ha una sua verità; ma queste verità sono le cause di cui si occupano le indagini scientifiche; non è possibile essere cosí compiacenti da confonderle con le verità della filosofia.

 

Se di notte sento un rumore che mi sveglia, e scopro che la finestrella del bagno, rimasta aperta, si muoveva cigolando agitata dal vento, ho trovato la “veritas” del rumore molesto. Ma finisce lí; la scoperta non mi dà nulla di piú.

 

Quando invece mi pongo la domanda: “Quale effetto fa l’assunzione di alcol nell’organismo fisico?” e vado a ripassarmi la risposta che emerge con chiarezza da molti testi antroposofici, allora posso scoprire una veritas completamente diversa e molto particolareggiata, che da solo, con le mie cognizioni personali e con tutte quelle della scienza ufficiale, non sarei mai riuscito neppure lontana­mente immaginare.

 

Non starò qui a ripetere quanto è già stato detto al riguardo da chi ha saputo comprendere e divulgare una verità piuttosto complessa, ma calzante alla perfezione con le nostre attuali esperienza di vita reale.

 

La Terra, il nostro pianeta, invecchia secondo i suoi ritmi; l’anima umana si evolve (forse non bene quanto dovrebbe, ma si evolve comunque) con grande rapidità; viene a crearsi una distonia, una scollatura; ciò che prima poteva essere fatto senza recare danno, ora non lo si può fare piú, perché nel frattempo è divenuto un pericolo individuale, pubblico e quindi sociale.

 

Le forze eteriche che fin qui hanno sostenuto la vita vegetativa del nostro mondo, non sono piú in sintonia con le forze eteriche sulle quali si basa l’armonia psicofisica dell’uomo in relazione al­l’ambiente in cui vive. È cambiato tutto; i segni ci sono e abbondano, ma noi non l’abbiamo capito, e, per cecità, ignoranza, o arroganza, continuiamo a comportarci (e a nutrirci) come se nulla fosse accaduto.

 

In particolare la pianta della vite ha subíto delle trasformazioni tali da rendere estremamente nocivo il prodotto della sua fermentazione, ossia il vino. C’è uno scompenso tra le forze eteriche presenti nel vino e la situazione del rapporto corpo eterico-corpo animico dell’uomo d’oggi.

 

Ho cercato un esempio per descrivermi questa realtà odierna e mi è risultato abbastanza difficile trovarne uno che rispecchi l’incongruenza e l’anormalità del moderno consumatore d’alcol secondo il punto di vista della disciplina spirituale. La piú indicata, o per lo meno quella che mi ha fornito un maggior effetto, è la seguente. Si tratta di una vicenda accaduta pochi anni or sono che mi è stata riferita in maniera convincente, anche perché se n’è occupata per qualche tempo la cronaca locale.

 

Un anziano agricoltore, perduta la moglie a seguito di una malattia, aveva tenuto occultato a tutti il di lei cadavere; lo teneva nascosto in casa, sul letto matrimoniale, abbellendolo, almeno cosí il vedovo credeva, di giorno in giorno con profumi e cosmetici. Scoperto e interrogato, aveva con­fessato che il suo amore per la defunta metà era cosí grande che non voleva rassegnarsi alla scomparsa, e nel comportarsi come aveva fatto, riteneva in buona fede di compiere non solo una cosa giusta, ma anche dolcissima, gentile e caritatevole per entrambi. L’importante era restare uniti assieme fisicamente, anche se uno dei due corpi aveva smesso di funzionare.

 

Penso che non occorra aggiungere dell’altro: se davvero il “restare uniti” oltre la fine fisica viene concepito in questo modo, allora anche la valorizzazione dell’alcol, come potere chimico tonificante, di conforto e rasserenamento interiore, per quanto momentaneo, sembra una ragionevole conseguenza.

 

Vincolarsi ad una sensazione percettiva alla quale si è profondamente affezionati, o ad una abitudine piacevole che sottolinea i momenti piú gradevoli della nostra esistenza, non deve ignorare lo scorrere del tempo; tutto si trasforma e puntual­mente ci chiede un sostanziale adeguamento della coscienza. Essa è libera di farlo o meno; se non lo fa, se lo rifiuta, avviene una frattura con la realtà di questo mondo.

 

Plato

 

Dice il saggio: “Amicus Plato, sed magis amica Veritas”. Di sicuro, aspirare alla verità è un’istanza irrinunciabile per le anime incarnate. Però la veritas del vino e di qualunque sostanza alcolica, sta sempre piú giú, nel fondo del bicchiere; non si lascia raggiun­gere mai.

 

Diventa illusione, miraggio, inganno; nei casi estre­mi, tocca l’empietà.

 

 

Angelo Lombroni