Breve digressione su Filosofia della Libertà

Spiritualità

Breve digressione su Filosofia della Libertà

Le schiere di Michele contro i demoniRudolf Steiner ci ha dato, tra moltissime altre, due importantissime conoscenze: la prima è che, a partire dal 1413 d.C., i Troni hanno trasferito il centro della conoscenza dal cuore (suo vero centro) alla testa degli uomini; la seconda è che Michele, dal 1879, dopo averle vinte nei cieli, è impegnato in una terribile lotta con le schiere di Ahrimane ‒ lotta che si svolge nelle anime umane ‒ affinché il pensare degli uomini, già morto riflesso di sé, non scada nella subnatura, perdendo ogni rapporto con il Divino. Perché i Troni abbiano svolto quel compito, e perché Michele abbia precipitato le schiere di Ahrimane nei cervelli umani, deve essere assunto come evento necessario, affinché sulla Terra possa sorgere la Libertà per opera degli uomini. Tale libertà potrà sorgere solo da un pensare voluto libero dall’Io, che lo pensi e lo sostenga con la sola sua volontà.

Sul pensare, la sua natura, le sue leggi e la sua storia nel divenire dell’umanità, Rudolf Steiner ha profuso immani capacità descrittive e dimostrative, circa la sua peculiarità unica tra le forze dell’anima, in particolare nel nostro tempo dello sviluppo dell’anima cosciente. Non si tratta di privilegiare tale facoltà, o di porre in atto astratte classifiche di importanza rispetto al sentire e al volere: la realtà risiede nel fatto che, con la reggenza di Michele, è il pensare che dobbiamo portare a piena coscienza dominandolo con l’Io, ovvero innestando in esso la volontà del nostro Io che, allo stato, dai piú non viene esercitata affatto. La libertà può iniziare solo dallo sperimentare il pensare puro o libero dai sensi mosso attivamente, cioè mosso dalla pura volontà dell’Io, e non passivamente e inconsciamente dalle percezioni esteriori e interiori, come di norma accade.

Qualsiasi oggetto, esteriore o interiore, può essere realmente compreso solo con il pensiero a esso applicato, quest’ultimo, invece, non richiede tale comprensione per se stesso, non ci costringe a formulare nessi d’idee e concetti per essere conosciuto, come invece è necessario per ogni altra cosa.

Usiamo sempre il pensare per comprendere tutto ciò che vogliamo conoscere, anche per i nostri sentimenti e volizioni, ma l’unico oggetto che non sottoponiamo mai ad analisi conoscitiva è proprio il nostro pensare: lo produciamo inconsciamente, ancor piú di quanto facciamo col respirare, per cui esso partecipa del processo conoscitivo senza che il nostro soggetto conoscente ne abbia normalmente sentore.

Si può giungere a prendere coscienza di una pura realtà da riconoscere: tutta la materia è, cosí come ci appare, solo il prodotto del percepire che poi non ci si accorge di pensare. Il percepito, e ancor piú la rappresentazione individualizzata che si forma e permane in noi, non è fatto solo di ciò che ci danno i vari sensi ‒ cioè una serie sconnessa di percezioni ‒ ma anche di quanto l’attività del nostro pensare vi aggiunge di concetti e nessi ideali, atti a formare un giudizio finale. La sintesi di questo duplice processo costituisce la base di ogni conoscere: il problema è che l’uomo dei nostri tempi non si accorge, tragicamente, di essere lui la sorgente del suo pensare, poiché si accontenta solo del prodotto finale dell’attività pensante, cioè del pensato. Quest’ultimo è il frutto delle avvenute correlazioni del percepito, raggiunto per mezzo dei nessi concettuali aggiunti e tessuti dal pensare, cioè il pensato. Ma il pensato divenuto giudizio cosciente – e il verbo lo dice – appartiene al passato: non è piú adesso, è stato; questa constatazione porta necessariamente a prendere atto che, della nostra attività pensante, mentre è in atto dandosi dinamicamente, non sappiamo nulla. Il suo muoversi tessente non giunge alla coscienza dell’ego finché, per determinarsi, inerisce la sostanza cerebrale, dove rispecchiandosi muore nel suo riflesso come forma morta, non piú modificabile. Tale forma morta, il pensato, diviene cosciente all’ego come rappresentazione individualizzata, o giudizio statico espresso per sempre, alienato dal pensare dinamico che pure lo ha formato, cadavere di quanto viveva, inconscio all’Io, fino a un attimo prima.

Sulla base di quanto già espresso, si può giungere a concepire anche questa ulteriore affermazione: tutto ciò che percepisco come altro da me, come ciò a cui non posso dire io e perciò mi chiede di conoscerlo, è soltanto un pensiero riflesso, pensato come reale al di là dalla forza pensante da me prodotta e poi morta nel riflesso pensato finale, per cui quel percepito appare come frutto di tale riflesso. Mentre nel pensare pensante la realtà continua a vivere, quale essenza spirituale dell’Essere, nel pensato riflesso e morto non può che apparirmi come parvenza di tale realtà.  Mi appare in una mera forma-immagine riflessa, in cui lo Spirito non può piú divenire, perché giunto alla sua forma morta, al non essere, al cadavere dell’essere vivente che ha lasciato dietro di sé: prodotto finale gestito dai servitori del Signore della morte. Il senso di tutto ciò è che il nostro ego, dopo essersi immedesimato senza posa con tale cadavere del suo pensare, infine ravvisi, superando la riflessità, di essere il vero soggetto di tali processi, e decida, con lucida autocoscienza, di impadronirsi della corrente inestinguibile della forza pensante non ancora determinatasi in un contenuto, in una forma morta, e offrirla sacrificalmente agli Dei quali vasi immacolati, in cui possa fluire la sostanza d’amore del Christo.

Volendo riportare a coscienza un qualunque pensiero precedentemente da noi formulato, prescindendo dal suo significato, possiamo sottoporlo ad analisi pensante come avviene per un qualsiasi altro oggetto esteriore o interiore. Tale oggetto-pensiero è stato prima immesso nel mondo da me, quale mio pensiero: senza di me non sarebbe mai stato prodotto. Se voglio sottoporlo ad analisi pensante devo prima percepirlo, e ciò non avviene per mezzo dei sensi corporei, ma con la stessa attività con cui l’ho prodotto: col pensare. Perciò tale oggetto-pensiero, in precedenza da me formulato (di cui non conta per nulla il contenuto), chiede solo di essere percepito coscientemente, nulla dovendosene conoscere, poiché il pensare che ora lo percepisce è qualitativamente identico, omogeneo a quello che l’ha prodotto in precedenza: essendo i due, nella loro essenza (e non nel contenuto), uno. Mentre il primo è un processo di pensiero terminato in un pensato, il secondo, mentre percepisce il primo coscientemente, è in atto: come tale è un pensare pensante, che percepisce e s’immedesima in un oggetto ideale identico a se stesso. Il secondo è un’attività spirituale dinamicamente in atto, percipiente il primo che è pensiero divenuto dialetticamente statico, mero riflesso del suo vero essere; finché il pensare pensante ne mantiene la percezione, non muore in una forma-rappresentazione statica e soggettiva, alienata alla sua realtà oggettiva ‒ cioè il pensato-riflesso come rappresentazione individualizzata ‒ ma permane di qualità omogenea all’essenza dell’oggetto percepito, di cui nulla può sfuggirgli, perché non abbisognante di ulteriori nessi conoscitivi. Tale essenza non chiede di essere compresa da ulteriore processo pensante, ma solo percepita da un’attività di pensiero voluta dal nostro vero centro, dal nostro io-soggetto, sostenente in sé tale processo svincolato da ogni determinismo di natura interna e/o esterna.

Seguendo tali pensieri, si giunge a comprendere la necessità e la ragione di esercitare gli esercizi canonici del pensare: la concentrazione e la meditazione. Se praticati secondo un ritmo cadenzato, e per un tempo relativamente adeguato (magari per anni), al momento giusto il proprio pensare potrà essere sperimentato non piú come riflesso della sua reale natura, ma come la luce di cui è fatto, vera luce spirituale, vera forza spirituale poggiante solo in sé. Quella Luce del principio che, nell’Io cosciente e volente la sua azione, finalmente si accende come arto della sua inizio-azione gerarchica, capace di illuminare tutti i piani dell’Essere secondo realtà. Quella Luce, come forza del pensare-volere, è capace anche di iniziare un’opera di creazione del nuovo, quale apporto ai mondi di una del tutto liberamente creantesi morale individuale, di un individualismo etico scaturente da vere intuizioni, di una fusione supercosciente con l’unica vera realtà dell’Essere: quella dello Spirito-Amore.

Si può formulare, cosí, questo nesso: la sperimentazione reale dell’essenza del pensare, del Fondamento del tutto, di cui condividiamo una scintilla-Logos, è ciò che, come dono concesso dal Mistero del Golgotha, l’Io dell’uomo incarnato può iniziare ad aggiungere al divenire dei mondi come primizia. La sua evoluzione, perciò, lo renderà partecipe, sempre piú, di una Comunione spirituale con l’Essere, di una cocreazione del divenire suo e del Mondo.

Mario Iannarelli