La quiete dentro la tempesta

Considerazioni

La quiete dentro la tempesta

Giorgione «La tempesta»

Giorgione «La tempesta»

 

Questo della quiete e della tempesta è sempre stato un tema che ha affascinato molti artisti, e nelle loro specifiche esplicazioni l’hanno scelto appositamente quale spunto per poetare, comporre o dipingere. Da quel che ricordo sulla punta delle dita, Leopardi, Beethoven e Giorgione si sono lasciati attrarre dalle forze della natura, decantando le diverse manifestazioni con rime, note e colori incredibilmente ispirati, tali da suscitare ammirazione e riconoscimento unanimi.

 

La tempesta e la quiete sono in effetto un chiaroscuro de­cisamente battagliero; l’anima ne viene a tutta prima pervasa, ma sa che alla fine della tormenta, o della bufera, ci sarà la benedizione del sereno e tutto si ricomporrà nella pace di prima. O quasi, dato che, presto o tardi, si può supporre che nuovi maltempi arriveranno, secondo l’imperscrutabile ciclo degli eventi naturali.

 

Ma non accade soltanto con i fenomeni atmosferici; ciò che incontriamo, ciò in cui ci imbattiamo di continuo, ed è parte integrante del cammino che abbiamo intrapreso, sono prima d’ogni altra cosa, le proiezioni della nostra interiorità, anche se le coscienze non sono mai deste al punto di comprendere l’intima connessione tra la natura presentatasi come esterna e i moti dell’anima di cui avvertiamo appena i turbamenti piú forti.

 

Non potrebbe essere diversamente; quando andiamo al cinema dobbiamo sottostare ai fatti e alle immagini che un regista ha voluto, bene o male, imprimere e far scorrere nel filmato. Dal momento che siamo liberi nelle nostre diversità, è ammissibile che tra l’uomo regista e l’uomo spettatore, non esistano corrispondenze o compatibilità di sorta. Ma tra gli uomini e le forze della natura questa separazione non vale; noi siamo anche natura (non solo, ma anche) e quella umana è la medesima che, sollecitata in differenti modi e da vari agenti, produce burrasche e amenità, valanghe e paesaggi idilliaci, cicloni e tramonti da cartolina; sconvolgimenti e maestosità d’ogni ordine e genere.

 

È relativamente facile rapportarci ai secondi, siamo meno disponibili a considerare una seria relazione con i primi. L’alternanza di stati di agitazione e momenti di quiete fanno parte del terreno esistere; il loro succedersi nell’arco del tempo è la risultanza di un numero di fattori talmente grande, che è molto piú pratico riassumerli con una sola parola: “casualità”.

 

A pochi, forse pochissimi, passa per la testa l’idea che, anziché attendere la fine della tempesta per trovarvi la quiete, quest’ultima può realizzarsi benissimo anche “dentro” e malgrado la tempesta. Scoprire la calma, la pace interiore, l’armonia, tra le oscillazioni dell’anima, è una cosa bellissima; sapere, ricordare che è uno stato raggiungibile, può in certe situazioni risultare salvifico.

 

Comunemente si parla de “la quiete dopo la tempesta”; qui cercherò di trattare invece della “quiete dentro la tempesta”.

 

È una cosa fattibile; voglio spiegare il perché di questa mia convinzione. Tutto quello che segue fa parte di una personale esperienza vissuta in modo esclusivo, per cui ogni eventuale contesta­zione finirebbe per lasciare il tempo quo ante.

 

Nel Dicembre del 1975, ho incontrato per la prima volta l’insegnamento di Rudolf Steiner, e poi quello di Massimo Scaligero, che ho anche conosciuto di persona, Durante tutto questo tempo, piú di una volta, è saltata fuori la domanda: «Cosa ho ricavato dall’Antroposofia, o per meglio dire dalla

 

Scienza dello Spirito? Sono in grado di darmi una risposta chiara, semplice, capace di mettere in evidenza il frutto delle mie applicazioni, ammesso che siano state proficue ?».

 

Il presente scritto tenterà di rispondere a questo interrogativo, che in sostanza rivolgo a me stesso, anche se la questione ammette cointeressenze di vasto raggio: sono certo di avere delle cose da dire; il problema sarà quello di esporle in modo corretto, senza equivoci e riserve mentali. Il che non è mai da darsi per scontato, specie quando il colloquio si svolge con la propria interiorità.

 

Mi pare di poter creare una rappresentazione di questo tipo: Rudolf Steiner ha costruito una cattedrale per tutta l’umanità; Massimo Scaligero ci ha svelato la presenza di strumenti interiori utilizzabili da chiunque lo voglia, per potervi accedere e svolgervi un determinato compito.

medaglie Steiner Scaligero

 

L’edificio (la cattedrale) ed il compito (strumentazione ed uso) sono i due lati di un’unica medaglia: essa rappresenta il senso del nostro vi­vere nel mondo in cui viviamo. Forse non è l’unico, ma di certo è il senso grazie al quale l’anima dell’uomo può trascendere se stessa ed espandersi nel­l’eternità, continuando a restare incen­trata nella coscienza pensante che le ha fatto, e continua a farle, da levatrice.

 

Rudolf Steiner ci rivela i perché del­la condizione cosmico-esistenziale in cui è possibile acquisire l’integrazione con la dimensione dello Spirito, e Massimo Scaligero illustra, con nitida precisione, tutto quello che c’è da fare perché questo possa verificarsi correttamente, in vista di un compimento ascetico indirizzato al Sovrasensibile.

 

Se cosí non fosse, se la natura e la naturalità rendessero l’umano già pronto al perfezionamento evolutivo, non avremmo nulla da cercare né in terra né in cielo, né dentro né fuori di noi. Basterebbe attendere. Invece per molto tempo, anche meditando e studiando, i passi da compiere appaiono ardui, proibitivi, fuori della nostra portata.

 

La normale esperienza del mondo ci dice che le cose stanno proprio cosí, e che qualunque mutamento radicale richiediamo a noi stessi, lo sforzo da compiere risulta immane, se non im­possibile. Succede allora che in alcuni animi sorga una tristezza, uno scoramento, o anche una rabbia (a seconda dei caratteri) tale da decidere di buttar via tutta l’Antroposofia, in quanto giudicata mezzo non idoneo a soddisfare appieno le aspirazioni intime piú comuni.

 

Altri invece non si lasciano condurre fino al punto della negazione; decidono di non decidere, di tirare avanti cosí; fingendo un po’ di essere convinti, recitando a volte la parte dei devoti, studiando i testi dei Maestri (ovvero leggendoli e rileggendoli senza porsi la minima domanda in merito ai contenuti o alle problematiche testuali), svolgendo pure gli esercizi previsti dalla disciplina, anche qui, senza mai concedersi un dubbio sul grado di partecipazione cosciente all’atto, anzi, vietandosi di porselo, con la giustificazione, piuttosto comoda, che il “risultato degli esercizi” non deve mai essere oggetto di revisione postuma, né critica né dialettica.

 

Ho sempre pensato che, forse, il risultato si può anche lasciarlo stare, ma la disposizione con la quale mi appresto all’impegno richiede secondo me una continua rivisitazione. Mi accorgo invece che, dandola per un evergreen, si tende a trascurarla con una certa sufficienza.

 

Uniamo cosí le categorie sopra descritte in modo grossolano ma efficace, a quella rimanente di una maggioranza silenziosa, numericamente molto piú estesa, che non vuol vedere né sentire, perché duramente impegnata nella cura quotidiana dell’effimero, ovvero quella che forse fra poco, verrà chiamata a pronunciarsi in chiave determinante sull’immediato futuro. Soppesiamo ad occhio le quantità inscritte alle medesime cerchie; potremmo cominciare a capire i motivi dell’attuale anda­mento umano, compreso quello per cui esso risulti indecifrabile anche alla tecnocrazia dei data base piú sofisticati, nonché allo stuolo degli ierofanti addetti al servizio.

 

Dobbiamo tuttavia spendere qualche parola ancora per illustrare con maggior precisione l’opera di Steiner e di Scaligero, perché collegare il primo alla costruzione di un edificio di culto, e il secondo ad un rifornitore di strumentazioni per viaggi iniziatici, può anche sembrare una cosa simpatica e onesta, ma conseguirà in chi legge solo un momentaneo interesse, il quale poi svaporerà velocemente, non appena una percezione maggiormente corposa attirerà i suoi pensieri.

Il primo e il secondo Goetheanum

Il primo e il secondo Goetheanum

 

L’Antroposofia non ha alcuna pretesa di costruire manufatti, anche se la sto­ria della Sede di Dornach sembrerebbe affermare il contrario. L’opera di Ru­dolf Steiner è un’opera gi­gantesca di costruzione informativa, conoscitiva e formativa, quindi essenzialmente metafisica; per la vita della quale è però necessario un riscontro accessibile alla percezione degli esseri umani. Senza un riflesso non si può intuire la luce. Ecco perché il mondo in cui viviamo è un riflesso: per farci riflettere a nostra volta su quella fonte di luce che non vediamo, ma senza la quale non potremmo neppure riflettere.

 

La cattedrale di Rudolf Steiner è “Il Luogo” (ricordo il “Topos” di Platone) in cui l’avventura del pensiero umano (volente e cosciente) muove i suoi primi passi, inizialmente timidi, incerti e contradditori; ma inarrestabili.

 

La cattedrale è il Cosmo, l’Universo, il Pianeta Terra, e, se vogliamo, pure il triplice involucro che ci identifica, ossia corpo, anima e Spirito: molti nomi per indicare il Tempio nel quale e con il quale sperimentiamo, elaboriamo, vivifichiamo ogni bioattimo che ci attraversa mentre lo incontriamo.

 

L’intento dichiarato dell’Antroposofia è di congiungere lo Spirituale che sta nell’uomo con quello che sta nel Cosmo; ricongiungimento essenziale perché la creazione possa continuare il suo corso avvalendosi, d’ora in avanti, della cooperazione umana.

 

Come detto poco fa, sono tutte grandi parole che in certi casi possono accendere entusiasmo e devozione; tuttavia se non mantieni assiduamente “sotto carica “ la fonte da cui provengono, valgono quanto la batteria del mio telefonino, che tende lasciarmi in panne con preoccupante frequenza.

 

L’andare a scuola da Massimo Scaligero, senza star lí a contare il tempo e gli anni, supplisce in ma­niera determinante al mantenimento e alla integrità della corretta disposizione interiore (quella famosa che andrebbe verificata di volta in volta); essa accende in noi la spiritualità; dapprima ritrovandola, poi ripristinandola alle esigenze che non possono piú essere quelle di un uomo dei tempi andati, ed infine arricchendola di forze e caratteri estremamente individuali, mai sperimentati in precedenza.

 

La capacità di cantare la gloria dello Spirito, per quanti sanno tendere l’orecchio, appare come frutto di una completezza conquistata e ormai posseduta in via definitiva. Dante Alighieri, Beato Angelico, Haendel, e anche, perché no?, il buon Tagore, ci sorprendono estaticamente ancora oggi se dedichiamo loro un po’ delle nostre fugaci riflessioni.

 

La Logica contro l'UomoMa con Scaligero, almeno per me, questo non è stato possibile. Il primo libro sul quale mi cimentai illo tempore, fu La Logica contro l’Uomo, e, come raccontai francamente all’Autore in una delle mie prime visite romane, persi la “quiete” al punto di scagliare il testo contro la parete.

 

Scaligero mi fissò con l’assorta, cordiale compostezza che gli era abituale e poi mormorò: «Capisco; succede». C’era qualcosa d’altro nella sua breve frase, qualcosa di sospeso che al momento non mi riuscí d’intendere. Ma già emozionato per l’incontro, non ci pensai piú, e per molto tempo tale ricordo, sommerso dalla routine delle vicissitudini, si affievolí quasi fino alla inconsistenza.

 

Oggi, però, nel recuperarlo e volgerlo in iscritto, mi è tornato alla mente nitido e preciso come non mai; soprattutto completo. È balzato fuori anche quel che allora mi mancò, e che invece è fon­damentale e fecondo per l’intero rapporto con il Maestro. Non dovrei parlarne perché sembrerebbe da parte mia di alludere ad una specie di privilegio intrattenuto con Massimo Scaligero, e che in qualche modo, portando l’aneddoto, possa trarne qui un compiacimento.

 

Sciocchezze! – mi sono subito detto. – Rischi e pericoli ci sono da per tutto; se vuoi girare per Roma in bici è meglio saperlo prima. E se vuoi scrivere di un lontano ricordo, integrandolo con un intuito tardivo, libero da supporti soggettivi, devi assumertene la responsabilità.

 

Alla mia rivelazione, di aver cioè sbattuto La Logica contro l’Uomo sulla parete della stanza, lo sguardo che, per un attimo, Massimo mi rivolse allora, comprendeva adesso un finalino, inespresso a parole, ma presente come intesa sottile, come un’affabile confidenza; che oggi mi risuona cosí: «…E la parete ha subíto danni?».

 

Per entrare nei Mondi dello Spirito, non bastano i mondi dello spirito; ci vuole anche una crea­tura capace di far vivere nella propria coscienza un pensare del tutto speciale, che cogliendo i supporti e le ponderazioni necessari allo scopo, si senta portata a creare e mantenere in costante aggiornamento una concezione filosofica, un’idea dello spirituale da sviluppare con il concorso di rappresentazioni e sentimenti posti in subordine al pensare-volere, dal quale ha preso le mosse.

Uomo in bici

 

 

Chi ritiene di trovare in questa riflessione un gioco di equilibri umani impossibile da praticare, deve proporsi una controprova in due tempi: per prima cosa, cercare di capire come fa un uomo a mantenere la posi­zione eretta sia nello star fermo sia nel camminare; secondo logica mecca­nica dovrebbe ogni volta cadere in avanti o all’indietro; come seconda prova, dovrebbe chiedersi come fa ad andare in bicicletta; dovrebbe cadere o a destra o a sinistra; invece l’uso sapiente delle spinte sui pedali, ripristina di continuo la linea d’equilibrio.

 

Piú o meno queste esperienze le abbiamo incontrate tutti e ci hanno convinto totalmente senza neppure l’ombra di una contestazione. Perché dunque la ricerca di un particolare assetto di equilibrio tra le forze interiori di pensare sentire e volere dovrebbe apparirci come un tentativo insensato, inutile o addirittura ridicolo? Chi ha detto che le stiamo usando al meglio?

 

Capisco che viviamo un momento evolutivo ove anche la cosa piú semplice appare stravolta, contorta e viceversa (è di ieri la notizia di un corteo di “negazionisti covid” sciolto dalle autorità per il mancato rispetto della distanza di sicu­rezza! Cosa questa che avrà fatto sbellicare dalle risa Berlicche & Co.), ma cerchiamo di non perdere di vista almeno quanto abbiamo sotto il naso. E non mi riferisco alla bocca.

 

Quando poche righe sopra ho scritto di un pensare speciale, intendevo puntare l’indice sull’ele­mento portante di tutta l’opera di Scaligero. Il pensiero normalmente sconosciuto si può esercitare in virtú di un volere di fondo che – lo si scopre soltanto dopo – ha la medesima origine del pensare stesso. Per compiere il primo passo nella direzione giusta, è necessaria una determinazione volitiva notevolmente consapevole, o uno slancio sublime verso una salvezza consacrante dell’umano, oppure (e qui ce n’è per tutti) il disperato bisogno di cambiare drasticamente ogni registro del quo­tidiano esistere, in quanto si è giunti al fatidico punto in cui qualunque cosa, anche l’autoannienta­mento, è meglio del tirar avanti cosí.

 

Si può girare e rigirare la frittata in mille modi, ma la soluzione mediante la quale pure la quadratura del cerchio diventa realizzabile è soltanto una: adoperare il pensiero operante in ciascun uomo di questo pianeta, depurarlo di tutta l’immondizia cui la nostra anima l’ha costretto, e ripotenziarlo al livello e al ruolo che gli spetta di diritto.

Ritorno di Ulisse a Itaca

 

Grazie ai capolavori omerici, conosciamo il mito di Ulisse/Odisseo quel che basta per svolgere un breve esperimento immaginativo: dopo la guerra di Troia e dieci anni di avventure sui mari, lottando contro mostri, maghe e forze ostili, Ulisse, con l’aiuto dei Feaci, ritorna a Itaca; ma da uomo prudente e astuto, conoscitore del mondo e dei suoi abitatori, si cela sotto le sembianze di un vecchio mendíco capitato per caso da quelle parti. Viene introdotto nella reggia, rivede il figlio Telemaco e comprende la situazione in atto. A questo punto, per un gioco di magia (speriamo di quella buona, che con le magie non si sa mai) sostituiamoci ad Ulisse; assumiamo noi la sua identità, tuttavia cancelliamo in lui, cioè in noi, ogni ricordo del passato e di tutte le vicende che per ben due decenni lo hanno tenuto lontano da casa.

 

Poco tempo fa, durante una trasmissione radiofonica che interagiva con gli ascoltatori, veniva data una mezza frase, un incipit, solitamente tratto da qualche romanzo o racconto, e che da casa i concorrenti al gioco avrebbero dovuto com­pletare a piacimento, dando cosí alla frase una rifinitura di fantasia liberamente compatibile con la premessa testuale.

 

Ne ricordo una in particolare, di cui ora mi giovo per l’esperimento di Ulisse. L’ incipit diceva: «Girò per tutta la casa, guardò in tutte le stanze e quindi chiese….» (fine della premessa). Un ascol­tatore inviò un sms con questa prosecuzione: «Dimmi ragazzo: chi sono questi uomini qui presenti?». «Sono Principi, o straniero; vengono dalle isole vicine. Noi li chiamiamo Proci».

 

Che succede se ad un certo punto Ulisse non ha piú alcuna consapevolezza del perché e del percome sia arrivato fin lí? Non ha idea di cosa l’aspetti in quell’isola, in quella casa, con quei personaggi in mezzo ai quali si ritrova, senza in realtà ritrovare nulla e nessuno. Noi ora, divenuti lui, siamo solo un vecchio mendicante, stanco, spossato, bisognoso di cibo e conforto; chissà come siamo capitati in quel mondo straniero, in un gruppo di sconosciuti coinvolti in una situazione difficile, intricata; anch’essa tutta da decifrare.

 

Dalle domande che ci facciamo, ma soprattutto da quelle che non ci siamo ancora fatti, emerge a volte un quadro di preoccupante instabilità: abbiamo preso in considerazione la nostra vita, o quel compendio di essa che ci affiora al momento, e, ritenendolo completo nella sua riassuntività, ci siamo chiesti drammaticamente (Ulisse e Amleto in questi casi si sovrappongono): «Che ci sto a fare qui? In che mondo sono? Non ne capisco nulla; è tutto assurdo».

 

Non abbiamo riconosciuto Telemaco, né Penelope; non ci siamo ricordati della reggia, della casa dei nostri padri; non abbiamo nemmeno ritrovato Itaca, pur camminandoci sopra; solo un vecchio cane spelacchiato ha voluto venirci incontro scodinzolante, per poi cadere stecchito ai nostri piedi. Che vorrà dire tutto questo? Come interpretare il mistero?

 

Ecco quindi dipinta la tempesta! Sentire se stessi immersi in una vita che non ci è piú com­prensibile ! A buona ragione possiamo chiamarla “la nostra tempesta”. Forse non è la tempesta del secolo ma senza dubbio è la tempesta secolare. Non mi si venga a vendere questa perturbazione come fatto estraneo all’esperienza generale acquisita giorno dopo giorno. La vita non è una tempesta, questo lo so. Lo diventa invece puntualmente quando una coscienza si smarrisce fino a scambiare un singolo frammento spazio-temporale (nella sua limitata significanza ) per quella Vita cui si agogna dalla nascita e si cerca, spesso commettendo ogni sorta di follie, dentro un mondo meccani­cizzato, fra gli impulsi del provvisorio, nella deludente fatuità dei mutamenti sperati.

 

«Sarebbe dunque questo, secondo te, il concentrato delle biografie umane?» Ogni tanto qual­cuno me lo chiede. Posso ribadirlo a tono, perché, comunque venga posta la domanda, me l’ero già posta io prima di lui.

 

Se è cosí mi dispiace, ma non ci siamo ancora capiti. Probabilmente non ho saputo spiegarmi meglio. Eppure nel fare un’analisi dei casi che abbiamo incontrato e delle situazioni che abbiamo vissuto direttamente o per interposta persona, sono sicuro che il momento dell’Ulisse/Amleto, divenuto meno capace di ri-conoscenza perfino di un povero cane, sia un passaggio piuttosto noto, provato, e in alcuni casi anche punto da cui non si torna indietro.

Uscire dal ciclone

 

Per uscire dalla tempesta, per uscire dall’occhio del ciclone, le re­criminazioni, specie quelle tardive, non servono. Non serve cercare l’intelligenza, non serve elevarsi nella cultura, né aprirsi alle nobili inclinazioni e neppure dedicarsi ai generosi intenti, se – a monte di tutto ciò – non si ravvisa l’urgere dello Spirito.

 

La mia intelligenza comincia a valere davvero quando tende al­l’Intelligenza Universale. Come fare? È semplice, dapprima crean­do in me le condizioni per accogliere questa Verità e allevarla con infinita cura e amorevolezza come fosse un figlioletto appena nato.

 

Ci riuscirò? Non ci riuscirò? Qui siamo di nuovo fuori del semi­nato. Come si fa a porsi il problema del traguardo quando si è appena scesi in campo? La sindrome del “risultato a tutti i costi”, del risultato “immediato da portare a casa”, la malattia dei “pochi maledetti e subito”, è suggerita                             dai demoni ispiratori delle frenesie del moderno finalismo; è meglio allora star fermi ancora per un po’ sulla linea di partenza, perché con certe tare addosso, non viste né tanto meno risolte, non si può pretendere di andare lontano.

 

L’impresa comincia quando siamo pronti per cominciarla: non prima o dopo.

 

Straordinario e impensabile: cosí, in tarda età, mi permetto oggi di valutare quanto ho fin qui rice­vuto, attraverso vie differenti ma integrative e concordi, dal lungo ammaestramento interiore presso la fonte dei miei Maestri, Rudolf Steiner e Massimo Scaligero. La sua eccezionalità consiste proprio nel fatto che in tutto questo tempo (40 anni: un nulla per l’eternità, ma un numero ragguardevole nel rapporto di un divenire dimensionato) non mi sono mai accorto di essere un discepolo, di esserlo stato e di continuare ad esserlo tuttora. Anzi, con molta cura ho sempre evitato l’appellativo di discepolo, ritenendolo esagerato e magari un pochino elitario; esibito nelle circostanze comuni, là dove anche la seta si fa cotone, mi è sempre apparso uno spreco. Meglio scolaro, apprendista, o novizio, che discepolo. L’antico “star a bottega” da un Maestro è sorretto da una libera decisione individuale; il discepolato è un po’ come un intruppamento; le adesioni dei singoli spesso devono poggiarsi una sull’altra per sostenersi.

 

Ho cercato di descrivere la tempesta evolutivo-esistenziale che accompagna l’umano dalla culla alla bara; evolutiva perché elemento trainante, che porta, spinge avanti, malgrado incertezze e resistenze da parte di una platea di usufruttuari che aspirerebbero a governarsi da sé. Esistenziale, in quanto, nel comportarsi cosí, gli uomini s’intralciano a vicenda, inciampano, si scontrano, fino a picchiarsi di brutto, e allora, piú affranti e sconvolti di prima, a gran voce reclamano ordine e giustizia; disgraziatamente per attuare siffatto proposito altro non sanno che affidare il compito della conduzione popolare a dei prescelti, selezionati secondo il criterio delle paure, degli interessi e del compromesso; proprio ciò che andrebbe accuratamente evitato, se davvero si volesse risolvere il guasto alla radice.

 

Quindi le tempeste perdurano, il cattivo tempo incalza e le stagioni si manifestano con tratti di insolita problematicità. Credere di poter trovare la quiete dentro la furia dei cataclismi sembra davvero una spacconata; specie se non si è ancora capito di che pasta siamo fatti noi e di che pasta sono fatti i mali che ci affliggono; bufere esteriori e interiori comprese.

 

La Scienza dello Spirito ha compiuto su di me un’azione lenta, progressiva, estremamente sottile, ma molto potente nel suo assieme. Dapprima sono arrivate le informazioni. Molte le ho scartate perché all’epoca mi dicevano poco o nulla, altre invece le ho colte subito, perché aderivano in qualche modo a quel che già mi sentivo portato a comprendere, anche solo per mezzo dell’ordinario immaginare.

conoscenza

 

Con il tempo, con gli esercizi previsti, e con mille altre integra­zioni di cui, in simili casi, la vita è prodiga, sono pervenuto a dei convincimenti fondamentali, a dei princípi che la mia vis critico-dialettica non è riuscita a demolire, né a eludere, e neppure a scal­fire; senza di essi, ulteriori costruzioni concettuali non mi sarebbero state possibili.

 

Il primo è che siamo “volontari”: siamo diventati uomini sulla Terra in quanto entità spirituali che deliberatamente hanno abbrac­ciato il compito dell’incarnazione e di quel che ad essa va connesso.

 

Il secondo è che nascere da uomini e vivere nella materia una esistenza limitata, apparentemente, priva di spiritualità, è la condi­zione necessaria per far sí che la Terra, tramite le coscienze umane ridestate al divino, compia il suo rinnovamento cosmico, già iniziatosi con il Mistero del Golgota.

 

Infine, il senso ultimo delle ripetute vite terrene è di portare la luce là dove, prima, regnavano le tenebre. Luce che ogni essere umano ha dentro di sé, anche a sua insaputa, e che si offre quale Conoscenza, Amore e Fedeltà al realizzo dell’Opera.

 

È follia? superbia? temerarietà? Possiamo vederla anche cosí: siamo liberi. Contro la missione degli Spiriti Umani verrà detto di tutto nel corso dei tempi. Ci saranno perfino accuse di empietà da parte di quanti se ne cibano quotidianamente.

 

Questo peso – una conditio sine qua non – deve venir messo in conto fin dall’ inizio; meglio saperlo prima che dopo; altrimenti, nell’ equivoco, il significato epico della missione si riduce ad una trama da fantascienza; in tal caso, insistere sull’argomento non avrebbe alcun senso.

 

Fuori del coro, abbiamo una testimonianza di rilievo: «Io credo di poter vedere il bene nel male, la verità nella menzogna: nel buio la Luce». Non mi risulta che il Mahatma Gandhi abbia incontrato l’Antroposofia o la Scienza dello Spirito, ma sicuramente ha incontrato lo Spirito.

 

Nel mondo contemporaneo, particolarmente in quello occidentale, cosí moderno, cosí tecnologica­mente avanzato, siamo in forte ritardo rispetto alla tabella di marcia evolutiva, e questo potrebbe for­nire qualche interessante indicazione sia sulle tempeste climatiche come sull’insorgere di pandemie tanto piú violente in quanto non ancora conosciute, per lo meno non nel modo in cui si sarebbero dovute conoscere. L’inoltrarmi sulla via di una moderna ascesi, non mi ha fatto ottenere i risultati che il mio egoismo continua a reclamare da mattina a sera; nulla è mutato nel mio iter biografico, nel mio status di uno fra tanti. A dire il vero non ho mai preso in considerazione una tale evenienza nemmeno quando, tra dubbi e incertezze, muovevo i primi passi. Aspiravo con forza a qualcosa di trascendente, ma quel che andavo via via trovando, prima di imbattermi nell’Antroposofia, erano soltanto palliativi, a volte espedienti; brillavano solo con i riflessi delle lusinghe.

 

Per un gioco di coincidenze che oggi potrei definire quasi divertente (mi trattengo tuttavia dal farlo perché le vie del karma vanno riviste in placida sobrietà), iniziai a leggere e a confrontarmi con i pensieri di Rudolf Steiner e di Massimo Scaligero. Nei primi tempi rimasi allibito o addirittura scioc­cato dall’ermetica difficoltà di alcuni testi o dall’estensione delle concezioni esposte, che avrebbero, nel mio caso, richiesto la premessa di un’adeguata propedeutica.

 

Quel che però non riesci a concludere subito, lo farai domani o doman l’altro, forse magari in un’altra esistenza futura. Occorre invece mettersi immediatamente al lavoro, usando quanto si può usare: costruire le basi di un àmbito intimo e personalissimo nel quale confluiscano i dati dell’espe­rienza assieme a quelli della conoscenza, ancorché teorica. E fare in modo che queste due correnti d’informazioni si reggano bene, saldamente, senza incrinature e senza bisticciare tra loro. La Scienza dello Spirito in cui vive l’Antroposofia o combacia con l’esperienza del nostro vissuto, oppure abbia­mo scantonato una delle due.

 

La parola di Rudolf Steiner mi ha saputo raccontare oltre l’immaginabile; là dove capivo mi riempivo di stupore e di meraviglia; là dove non ce la facevo, imparavo ad aspettare con tranquillità il momento, che sarebbe venuto. Solo nell’atto della vera conoscenza infatti, “l’essenziale comincia a distinguersi dell’inessenziale”. Massimo Scaligero ha dato ordine ai miei pensieri, narrandomi per filo e per segno chi e cosa sia l’ego e chi e cosa sia l’Io; come questo Io valga nella misura in cui risuoni nell’anima con la forza dell’Io Sono; quali siano i rapporti, le lotte e anche gli accordi possibili tra i due grandi protagonisti delle vicende umane e sovrumane. Fondamenti indispensabili, corroboranti l’enorme mosaico antroposofico.

 

Dal lavorío di entrambi i Maestri. la coscienza ordinaria, formatasi esclusivamente nel fisico-sensibile, si automodifica, subisce un processo evolutivo, al quale sarebbe stata comunque destinata, priva però di cognizione e in balía di forze sconosciute.

quiete e tempesta

 

Una tempesta che dentro di sé porti la quiete è solo un’immagine retorica, in natura non è possibile realizzarla: o c’è la prima o c’è la seconda. Ma all’incalzare dell’una, l’uomo può darsi il compito di rispondere con la grazia dell’altra.

 

Rudolf Steiner e Massimo Scaligero sono stati per me gli Artefici di questa compensazione; evento insolito nella climatologia animica. È giusto e doveroso affermarlo.

 

 

Angelo Lombroni