Lettera per Ananda

Considerazioni

Lettera per Ananda

 

Buddha e Ananda

 

«Cosí stanno dunque le cose in questo mondo, o Ananda; che troppo spesso l’anima dell’uomo ambi­rebbe amare senza sforzarsi minimamente di conoscere e d’altra parte con altrettanta forza vorrebbe carpire i segreti dell’universo senza nulla concedere alla devo­zione, agli affetti e ai sentimenti: in entrambi i casi, tuttavia, pretendendo di vivere serena e beata». 


 

Gli uomini si pongono delle domande. Possiamo di­re anche cosí: mezza umanità attende risposte da fuori e l’altra metà se le ricerca dentro. Dal momento che appartengo al secondo gruppo, anch’io cerco dentro, ma devo ammettere che, quanto a risposte, sono un po’ in difficoltà; non tanto perché scarseggino, ma per il motivo che tra l’esposizione della domanda e la comparsa di una risposta, ci passa un tempo talmente lungo che, al momento della ricezione, non so piú dove e come collocarla; la domanda di riferimento si è volatilizzata nei meandri del mio archivio interiore, e i tentativi di ripescaggio diventano a questo punto una mission impossible.

 

Per cui succede che, avendo collezionato parecchie risposte di cui ho scordato le relative domande, non sono piú in grado di riconoscerle come risposte; le conservo comunque per una sorta di affezione empatica, chiedendomi come mai esse mi siano pervenute. In definitiva trasformo le risposte in altret­tante ipotetiche domande, creando una specie di ciclo continuo che vorrei non dover interrompere, se non per il timore di rimanere senza spazio sufficiente allo stoccaggio.

 

Alcuni abbinamenti di domande-risposte mi sono tuttavia ben presenti, anche se a molte delle persone che conosco appaiono astruse, futili, tipiche espressioni di una natura vanesia e perditempo. Non dico di no; però questi binomi concettuali, ancorché incompleti, mi fanno riflettere, mi danno temi da scrivere, argomenti da chiarire e approfondire, mi permettono colloqui con me stesso non sempre facili da con­durre; mi inducono soprattutto a pensare per conto mio, da solo e in silenzio; e questo, di fronte ad un incalzare del mondo, sempre piú frastornante e brulicoso, in gran parte inconcludente se non sconclu­sionato, mi pare una gran bella consolazione.

 

Ecco alcuni assaggi binomici da risolvere; ovvero, trovare l’elemento in comune che li unifica e rende logica la natura del rapporto.

 

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Il viale in cui abito è probabilmente la strada piú pulita delle Tre Venezie; forse dell’intera penisola. Da molti anni le istituzioni locali, spinte da provvide direttive UE, hanno decretato che ogni mattino, all’alba, sia d’estate che d’inverno, festività comprese, una macchina operatrice (in pratica una specie di carro-armato provvisto di spazzoloni aspiratutto) sfer­ragli in e su e in giú per il vialone completo, onde to­gliere dalla strada ogni minimo residuo di sporcizia e di umana incuria accumulatosi nelle ultime ore.

 

A nulla serve spiegare agli operatori, in genere extra­comunitari, ma forse extraterrestri, protetti da masche­roni ecologici, e paraorecchi antisuono (e pure anti­comprensione buonsensoria) che specie nelle giornate di vento o di pioggia, quando le foglie cadute dagli alberi coprono in pratica tutta la pavimentazione stra­dale e vi si incollano sopra come cicche di chewing gum, la loro fatica diventa tanto improba quanto inu­tile e potrebbero starsene tranquilli a prendere un caffè in attesa di un meteo maggiormente favorevole.

 

Ma quei seguaci di Sisifo, vuoi per puntiglio professionale, vuoi per rispetto dei patti contrattuali, vuoi perché non capiscono un’acca, non sentono né demordono dal compito. Comunque il punto sta altrove: il carro-armato, ovvero la macchina operatrice, che nei suoi ripetuti assordanti passaggi fa tremare i vetri delle finestre di tutto l’abitato, è dotata (mi sono informato: deve esserlo per accordi normativi U.E.) di un fischietto flebile e continuo, che fa “tiú-tiú-tiú”, nonché di una lucina lampeggiante giallo-arancione sistemata sulla torretta, là dove – evidentemente – doveva esserci stato in origine il cannone.

 

La domanda di cui attendo da anni risposta interiore, è la seguente: a che servono il segnalatore acustico e quello visivo, se il Mostro Spazzolone Cingolato si muove al rallentatore e per di piú produ­cendo un baccano fragoroso? Qualcuno ha tentato di risolvermi il quesito, dicendo che le Autorità Pen­santi (?) hanno voluto in primis agevolare le categorie disabili dei non vedenti e non udenti.

 

Ora, con tutto il rispetto che posso provare per quanti si trovino in difficoltà sensorio-funzionali, penso che pure avendo grossi problemi alla vista, sia difficile ipotizzare di non venire investiti da un semovente di 15 tonnellate, che tra l’altro arranca con esasperante lentezza, grazie a quel suo fischietto d’allarme, il cui patetico “tiú-tiú-tiú” vale meno del pigolío di un passerotto nel bel mezzo di una bufera; altrettanto, credo, si possa sostenere per chi, menomato nella capacità uditiva, fosse in grado di rico­noscere il pericolo del Pulisauro arrambante, solo in virtú dell’ammiccare intermittente di una lucina che gli sta attaccata addosso come la remora allo squalo.

 

Ammesso che fossi un appassionato di caccia grossa subacquea, sono convinto che riconoscerei un pescecane molto prima di averne avvistato il pesce pilota. In fondo è sempre una questione di pro­porzioni. Eppure è cosí; le Autorità Pensanti (?), a Bruxelles, a Roma o a Zagarolo, hanno ponderato il caso e stabilito il criterio solutivo. Poi, come sempre, la gerarchica filiera degli addetti ai lavori si è adeguata, modulando il paradigma sulla consolle delle infinite varianti, e – non è difficile capirlo – a questo punto nulla è impossibile; se si reputa che il risultato del fracassante lavorío prodotto dall’eco-mastodonte, possa in qualche modo venir giustificato dai segnali acustico-visivi emessi, allora, mi si permetta il paradosso, non è lontano il giorno in cui ci porremo come smart question quale delle due varianti sia stata di maggior influenza per il formarsi di una coscienza critica nell’attuale società moderna: la filosofia Zen o la legge Zan?

 

Cambio registro, ma rimango nel tema in corso: tema delle difficili scelte, delle scomode decisioni, delle impertinenti distinzioni, ma anche di estremismi ostentati, di contrapposizioni nascoste, di diversità standardizzate e di normalità patologicamente perseguite. In poche parole, tutto quel che dovrebbe venir fatto ma che non si fa, e che purtuttavia si finge di fare, affinché quelli che ci osservano abbiano la sensa­zione che qualcosa comunque, noi, nel nostro piccolo, l’abbiamo fatta.

 

Ai tempi nei quali esercitavo la mia professione di agente di assicurazioni, mi sorse un problema che al momento pareva essere di natura esclusivamente tecnica, ma che poi risultò provenire da molto piú lontano. Dovetti imparare a gestirlo non da assicuratore, ma da uomo; e fu un guaio, perché a quei tempi, in me l’assicuratore c’era, e l’uomo invece doveva ancora venire.

 

Polizze assicurative

 

Chi assicura l’automobile, la casa o il negozio, contro i rischi di incendio e furto, deve sapere che esiste una regola, la cosí detta “proporzionale”, in base alla quale, in caso di avvenuto sinistro, la con­gruità del risarcimento potrebbe non aver nulla a che vedere con quel che ci si aspetterebbe, tenuto conto del quantum contrattualizzato e del premio corrisposto.

 

Supponiamo che io assicuri la mia automobile (va­lore commerciale stimato ventimila euro) ma per mie ragioni (in cui ci metto pure la tirchieria) io l’assicuri per la metà, ossia per diecimila euro. Se la macchina si incendiasse e venisse distrutta completamente dal fuo­co, oppure mi venisse rubata, senza ritrovo in tempi ra­gionevoli, è chiaro che riceverò, come risarcimento del danno subito, il valore dichiarato in polizza.

 

Ma se il danno fosse parziale? Se il fuoco si fos­se limitato o spento prima della distruzione totale? O se il ladro abbandonasse l’auto dopo aver tolto le ruote? In tal caso, sapendo di essere garantito fino a die­cimila euro, crederei di aver diritto alla spesa per il ripristino integrale di quanto danneggiato o perduto.

 

Invece no: qui viene il bello. Gli Uffici Sinistri (termine quanto mai azzeccato) tramite i loro ineffabili Ispettori-Liquidatori, ti dicono: «Nossignore, non se ne parla proprio. Lei ha inteso assicurare il bene per metà del suo valore e quindi nel caso in esame lei avrà diritto al 50% del danno emergente».

 

Se ci si pensa su, si comprende che il ragionamento non fa una grinza; chi assicura per 50 un oggetto che ne vale 100, sa che otterrà al massimo quel 50 per cui ha pagato il premio. Ciò che invece al mo­mento non sa, ma che verrà a sapere dopo, è che l’assicurazione si avvarrà di questa proporzione anche nei casi di danno parziale; per cui se ti rubano una gomma da 200 euro, verrai a prenderne soltanto 100, perché – te lo chiariscono in seguito – garantendo un oggetto per la metà del suo valore, hai chiaramente (!) manifestato la tua intenzione di ottenere, in caso di “danno non totale”, solo una parte di esso, e precisamente quella parte rappresentata dal rapporto tra il valore reale del bene e quello coperto dal contratto assicurativo.

 

Non è una buggeratura, è la vis legis, e se il popolo non la conosce, quando verrà il momento la im­parerà. Niente di grave, l’ignoranza non è ammessa, e gli esami non finiscono mai. Ma una cosa è voler imparare, un’altra è mandar giú quel che ti hanno costretto ad ingoiare.

 

C’è un corollario in piú da riferire su questa fattispecie d’indennizzo. Dopo averti fatto digerire la reità della tua ignoranza in materia, il Liquidatore passa al trattamento di secondo livello: «Dunque caro signore, lei ora dovrebbe percepire 100 euro che rappresentano la metà del valore del danno a seguito del furto della ruota. Ma vede, sono spiacente, neppure questo le possiamo offrire, perché la ruota, quella che le hanno rubato, non era certamente nuova. La sua macchina risulta essere stata comperata cinque anni fa, quindi la sua ruota aveva la stessa età, vero? A meno che lei non mi dimostri, fattura alla mano, di aver acquistato una ruota nuova negli ultimi due o tre mesi, quanto crede possa valere sul mercato una ruota vecchia di cinque anni? Sono costretto quindi applicare anche il degrado di vetustà, che, secondo le nostre tabelle attuariali, è piú o meno del 40%; per cui, sottraendo dal valore iniziale effettivo di 200 euro il suo 40%, siamo arrivati a 120 euro; su questi dobbiamo applicare poi la proporzionale del 50% tra valore intero e valore garantito, e alla fine arriviamo a 60 euro. Se accetta, firmi qui».

 

Ricordo che per difendere gli interessi di un amico che, in quanto cliente, si era trovato invischiato in una situazione del genere (naturalmente per cifre ben piú alte) avevo bussato fino alla porta del sancta sanctorum della Direzione Sinistri, della società che rappresentavo, spiegando l’estremo disagio venuto a crearsi tra il suddetto cliente ed il sottoscritto. Di fronte al principio della lex dura lex, avevo chiesto lumi in merito; volevo almeno sapere dove, in quale punto, la legge obbliga noi assicuratori a quantificare in questo modo. Quale norma rendeva legittime tutte queste riduzioni?

 

Risposta: «Per l’antico comma latino: Nemo locupletari potest cum aliena iactura».

 

Vietato l’arricchimento a scapito di altri

Vietato l’arricchimento a scapito di altri

 

Poiché il latino l’avevo studiato, replicai con immediatezza: «Mi perdoni: d’accordo sul fatto che nessuno ha il diritto di arricchirsi a scapito di altri, ma in questo caso è il mio, cioè il nostro cliente stesso che ci viene a rimettere».

 

«Eh, caro amico, lei dice cosí perché fa l’agen­te e giustamente si è abituato ad agire sul piano commerciale. Lei è istintivamente portato a di­fendere gli interessi dei suoi assicurati. Ma io qui, vede, sono, immodestamente mi creda, il Capo del Servizio Sinistri nonché della Liquidazione Danni su tutto il territorio nazionale. Ove io facessi una deroga, e, per venirle incontro, non dico aggirassi la disposizione di legge, ma la applicassi, diciamo, per una volta, con una piccola, piccolissima attenuazione, sa cosa avrei fatto? Me lo dica, la prego, ci tengo a saperlo!».

 

«Beh, mi pare che mi avrebbe fatto un favore».

 

«Ecco, vede? Questo è il punto: un favore! Avrei favorito lei e il suo assistito, certo! Ma a quale prezzo? A danno di tutti gli altri assistiti, sui sinistri dei quali, passati e futuri, non avrei esercitato la medesima azione in deroga. Capirà, non posso accontentare uno, danneggiando gli altri, e per di piú a loro insaputa. È il principio di ogni mutualità. Sarebbe una cosa non soltanto irregolare ma anche, me lo conceda, un pochino… immorale. Non trova?».

 

Non lo trovai allora, né sono riuscito a trovarlo in seguito; in compenso ho capito come a volte una menomazione funzionale dell’apparato psichico, possa costringere il pensiero ordinario a porsi dialettica­mente al servizio della malattia fino farla figurare come un particolare stato di salute.

 

Operatori sanitari corrotti

Operatori sanitari corrotti

 

Allargando la prospettiva ne veniva fuori una vi­sione da incubo! Uno stuolo di operatori sanitari e di ricercatori farmaceutici, tutti pesantemente ammalati nella mente e nel corpo, ausculta, testeggia, mani­pola e scientificamente infierisce (cfr. accanimento terapeutico) su una collettività di “pazienti” non dico sani, ma in gran parte non ammalati; prescrive loro esami diagnostici, TAC, TIC, TUC, risonanze magneti­che, prove invasive, medicinali inutili e dannosi, in­terventi puramente esercitativi, col proposito piú o meno deliberato di condurli, attraverso una sorta di training interattivo computerizzato, nella ragnatela di un ipocondrismo spinto, dal quale non si esce se non dopo aver pagato in espianti e donazioni organiche.

 

Si vede proprio che per quella occasione sono stato suggestionato dalla lettura di qualche libro di Stephen King. Meno male che la realtà di ogni giorno è del tutto diversa (certo, rimane la notte coi suoi nightmares, ma lí, con qualche pillola, ci difendiamo).

 

Ad ogni buon conto, le vicende piú o meno biografiche che ho fin qui illustrato sono un invito a co­gliere, nelle diverse situazioni che la quotidianità puntualmente ci presenta (direi con grande abbondanza), come di fronte all’accaduto la coscienza critica tenda ad impennarsi simile ad un cavallo imbizzarrito: si fa di colpo nervosa ed agitata, e cerca la via piú veloce per recuperare l’equilibrio perduto.

 

Coloro che sono infatti agitati e nervosi cercano disperatamente questo equilibrio, e prima o dopo lo trovano anche, ma per una specie di beffa del destino di massa (ammesso che esista un destino di massa), ognuno lo trova in un punto diverso; il che lascia supporre che il travaglio sia ben lontano dal finire e che gli scontri e le tensioni avranno la meglio sulla ragionevolezza e sul buon senso.

 

Potrebbe essere questo la causa madre di tutte le litigate che incombono a livello domestico, pubblico, lavorativo, confessionale, politico e sportivo? No, non ancora. Col definire l’essere umano un homo litigiosus non abbiamo detto un granché. La causa vera rimane avvolta nell’ombra.

 

La recente sciagura della funicolare del Mottarone è a mio avviso il simbolo di questa ambiguità; non saprei con quale altro nome chiamare la vuotaggine interiore che nasce quando accanto all’urgenza di dover dare una risposta decisa al senso di responsabilità, contemporaneamente la coscienza vacilla sotto il peso di un moralismo troppo immaturo per forgiarne una adeguata alla richiesta.

 

Non sto parlando dell’accaduto in sé e di ciò che lo ha provocato, sarebbe inutile. Sto parlando del video che ha ripreso i pochi istanti antecedenti il momento dell’incidente e che è divenuto di colpo un evento virale sulle reti private. Il problema è emerso con violenza, costringendo osservatori e guardatori a porsi su quello stesso livello che, fin qui, nei limiti del possibile, si era disinvoltamente glissato.

 

Dal momento che una testimonianza esiste, è giusto che essa venga pubblicata senza ulteriori precau­zioni, oppure è opportuno nasconderla, celarla per un riguardo alla sensibilità umana e in nome di un principio moralistico che vorrebbe non aggiungere altro male a quello già compiuto?

 

Se una macchina stradale reca maggior danno e disturbo alla quiete pubblica, che non l’insudicia­mento del suolo che dovrebbe pulire, il fatto che sia in regola con le disposizioni vigenti per la tutela dei piú fragili, conferma la positività della sua funzione o la fa decisamente decadere?

 

Se il corretto uso della finalità assicurativa viene fatto a pezzi e strapazzato dalla politica levantina di molte imprese preposte al servizio, non si giustifica in tutti i casi che esse continuino ad operare e che di conseguenza la gestione dei danni, in particolare quelli automobilistici, non sia abbandonata alla litigiosità delle parti in causa?

 

Verità nascoste

Verità nascoste

 

Se il governo di una nazione si arroga il diritto di scegliere preventivamente le informazioni da diffon­dere a livello popolare, ai fini di non turbare ecces­sivamente la sensibilità di massa (sempre che esista una sensibilità di massa), ma questa tuttavia manife­stasse la spiccata tendenza ad agitarsi ancor piú nel­l’accorgersi di essere stata notiziariamente oscurata, resterebbe ancora intatto il nostro convincimento in fatto di libertà e democrazia?

 

Sicuramente no. Dobbiamo convenire che determinate decisioni riguardano solo le nostre coscienze individuali, e se per ora – e per molto tempo ancora – queste non saranno in grado di trovare un accordo conclusivo e stabile su qualunque questione sia a deliberare, dalle divergenze sulla manutenzione del giardinetto condominiale alla violenza dilagante dei conflitti che infiammano territori e popolazioni, allora vuol dire che le nostre sofferenze animiche, condivise o meno, rappresentano il prezzo che ci resta ancora da pagare, per la nostra cronica, insufficiente distanza dal cuore del problema.

 

Gli esempi sopracitati portano a farci intendere d’avere un unico minimo comune multiplo: quello di dividere (e destabilizzare) gli animi, costringendoli in piú schieramenti possibili, tutti in guerra tra loro, ma alternati con le ingannevoli varianti degli armistizi, delle alleanze, degli accordi e dei protocolli, sul piano transnazionale, nonché delle ipocrisie patinate, degli altarini profumati, delle sentenze di comodo e dei fondamentalismi da separé, su quello privato.

 

Chiediamoci perché: qui abbiamo, come spesso succede, una doppia possibilità: o ci diciamo che l’uo­mo è fatto cosí per una sua naturale conformazione, e quindi non possiamo farci nulla, oppure dob­biamo ammettere di procedere sulla via dell’evoluzione in modo insensato, scorretto e pericoloso. Ed allora un intervento rettificatore diventa non solo auspicabile, ma anche urgente ed essenziale.

 

L’intervento correttivo, è bene ricordarlo, può essere del destino (karma collettivo), oppure di terzi (mine vaganti), ma nulla vieta che possa essere anche nostro; specificatamente. personalmente-individual­mente nostro. Sempre che ci rimanga il tempo di capirlo.

 

Possiamo sbagliare, possiamo confonderci, possiamo venire sedotti, depistati e ingannati; non c’è pro­blema. Siamo qui anche per questo. Ma non solo per questo. Abbiamo il pensiero, abbiamo la coscienza critica, abbiamo la facoltà di esaminare retrospettivamente ogni esperienza acquisita. Siamo in grado di valutare e riconoscere dove, quando e perché abbiamo sbagliato. E se scopriamo di essere stati veramen­te giocati, saremmo pure in grado di capire che ogni forma revanscistica da intraprendere contro chi rite­niamo responsabile del torto subito, altro non porterebbe se non all’innesco di una faida che, in aggiunta a quante già intaccano il mondo, farebbe ulteriore scempio della nostra anima.

 

La difficoltà del saper perdonare sta tutta nel riconoscere l’illusorietà delle colpe altrui. Il karma di ogni esistenza fisica dimostra con dovizia di mezzi che vi è sempre un solo unico responsabile in ogni nostra manchevolezza. È una verità che non ha avuto finora molti seguaci.


 

«Arriva quindi il giorno, caro Ananda, in cui s’impone la scelta di quel che l’anima effettivamente è venuta a fare; bisogna smetterla di cincischiare col pro e col contro; si deve prendere una posizione interiore chiara e netta. Decisione sottile e delicata, non solo perché i fatti e le sensazioni del mondo, nel bene e nel male, le si riflettono mischiati fra loro, ma soprattutto perché è lei stessa a riconoscersi parte del medesimo. Scopre allora che ogni problema assume in lei una forma diversa, diviene impe­gno di soluzione morale, e che da quel momento in poi, ad ogni suo possibile distinguo le corrispon­derà un’intima lacerazione, dolorosa e liberatrice ad un tempo».


 

Spirito-materia, amore-odio, luce-tenebre; le dicotomie hanno tutte un loro fascino; sono state utili per sostenere ed illustrare argomentazioni, letterature, filosofie e religioni; ma hanno finito per lasciarci col cerino in mano; l’eccessiva frammentatura dialettico-concettuale, divenuta un gioco tanto appassionante quanto inarrestabile, ci impedisce in questa epoca di tornare indietro e di convergere all’unità. Monismo e atomismo potrebbero identificarsi e magari coincidere ove esistesse una coscienza umana disposta a lavorarvi sopra per un lungo termine. Una coscienza cosí allargata da intuire che l’identificazione può nascere soltanto da un suo rinnovo, da una sua maturazione sperimentabile come capacità umana di farsi compenetrare dal divino.

 

Ovvero: la riconferma di quel che è già stato e che a furia di false libertà e di affascinanti permissi­vismi abbiamo finito per scordare, ma che tuttavia andiamo ricercando fuori e dentro di noi, senza piú sapere di che cosa veramente si tratti. Un po’ come quelle famose risposte di cui abbiamo da tempo perduto le domande.

 

Una tale discrasia animica si ripercuote puntualmente come effetto sulla quotidianità, rendendo piú incisive e sconvolgenti le tragedie che il nostro sesto senso non manca mai di evidenziare, tanto nello sbandierarle senza pudore quanto nel coprirle di perbenismo.

 

Se si volesse mettere a confronto il video della tragica funivia col reportage che documenta le effera­tezze compiute da una parte del personale sui detenuti di un penitenziario, quale dei due scenari la nostra coscienza morale vorrebbe censurare per primo? Entrambi gridano vendetta al cielo, entrambi disgustano per orrore e vilipendio della dignità, del buon gusto e del rispetto nei confronti delle vittime dell’evento. Ma nel secondo, il diritto all’informazione si becca qualche punto di gradimento in piú nella tabella del­l’immaginario populistico, ci tiene informati su un qualche cosa che altrimenti avremmo potuto anche non sapere, mentre nel primo, a fatto accaduto e notizia divulgata, una tale attenuante non può essere eccepita.

 

È questo, in definitiva, l’ elemento di separazione tra il lecito e l’illecito, tra l’etico e l’immorale, tra la pubblica decenza e l’indecenza privata? Tra un generalizzato diritto all’informazione e la morbosa curio­sità di singoli ficcanaso? Che uno abbia il benestare di una presupposta obiettività di gruppo, mentre l’al­tro affonda in un gorgo di peccaminosa disapprovazione selettiva?

 

Per quanto riguarda il grado di presenza interiore, non c’è molta differenza tra il diffondere i volti sofferenti (sconosciuti ma riconoscibili) di migranti in difficoltà, oppure di renderne anonime (tramite l’espediente tecnico di sgranatura e velamento) le facce di altri (solitamente non migranti), i quali po­trebbero appellarsi al diritto d’immagine.

 

Supponiamo che la cernita di quel che si può dire e di quel che si può mostrare pubblicamente si fondi veramente sulla sensibilità etica di uomini, i quali abbiano poi la possibilità di far valere le loro vedute e i loro giudizi su tutti gli altri (stampa e organi di diffusione per primi). Come ci possiamo allora spiegare non solo gli orrori e le scene terrificanti che ripetutamente vengono riproposti da grandi e piccoli schermi, dai vi­deogames, da libri, raccolte, collezioni e perfino da mostre, con la scusante che la cultura non conosce limiti?

 

Invasione di campo

Invasione di campo

 

Cerchiamo di spiegarci il perché in molte ri­correnze commemorative si possono riesumare (e rivedere in ampia rassegna documentativa) le atro­cità del passato messe bellamente in passerella, se dopo, durante una partita di pallone, uno sciagu­rato, in mutande o senza, sfugge ai sorveglianti e attraversa il campo di gioco, le telecamere pre­senti fingono di non vederlo e comunque non ne trasmettono la visione? Mi pare che il primo caso sarebbe da censurare in toto, per evidente difetto di moralità e di decenza; mentre nel secondo ca­so, il fatto in sé, ridicolo quanto futile, non avreb­be certo leso la dignità degli eventuali spettatori, semmai solo quella dello “stupidottero” in cerca di pubblicità gratuita…

 

Ed è forse questo il punto chiave del marchingegno. Ancora la pubblicità! La Propaganda! (Che altro è la pubblicità se non propaganda!). E la propaganda non può mai e poi mai essere gratuita. La propaganda vuole convincerci di qualcosa, vuole indurci a fare qualcosa. Perciò la Propaganda è esattamente il contrario della Libertà; anche se a volte finge (e sa fingere bene) non è mai amore, non è mai altruismo, o generosità; né potrebbe esserlo. La Propaganda sta all’Amore come il Diavolo al­l’Acqua Santa. Se si vuol portare farina al proprio mulino (sempre che l’apporto sia evidentemente lauto e sostanzioso) allora anche l’esibizione di brutture e turpitudini possono andar bene, e sfilare in parata davanti alle nostre ammutolite coscienze, spalmate del balsamo evergreen: “Per non dimenticare” e “Che non accada mai piú”.

 

Un pazzoide invece che si vuole esibire correndo nudo per un campo di calcio gremito di gente, non potrà mai produrre una somma di profitti adeguata ad una sua eventuale “accettazione” nel comprensorio moralistico collettivo. Anzi, bisogna multarlo, per contravvenzione al buon costume e disturbo della quiete pubblica. È un “ invasore”, perciò deve essere fermato, ma soprattutto nessuno (a parte i presenti) dovrà venire a sapere della sua prodezza. Non per nascondere la notizia in quanto tale (che poi sarebbe di utilità zero) ma per “non urtare la pubblica ipersensibilità”.

 

macellaio

 

Chi la pensa cosí, dovrebbe condurre con sé il proprio nipotino (se ce l’ha) o comunque un bambino piccolo, quan­do va dal macellaio a comperare della carne. Si chieda dove è finito l’impulso etico a non ferire l’ipersensibilità altrui, nel mostrare al bimbo le carni squartate ancora san­guino­lente appese ai ganci, i polli spennati eviscerati, le frattaglie sparse sul bancone e tutte quelle altre cosine alle quali, con imperterrita noncuranza, ci siamo abi­tuati da secoli.

 

Ho fatto di persona questa esperienza e posso assicurarvi di aver perso la voglia di mangiare la carne animale. E se, per caso, il desiderio tornasse, mi basterà rivedere la faccia del mio nipotino, che dopo aver osservato i capolavori della mattanza esposta, si è fatto pensieroso, mi ha fissato, chiedendomi sommesso: «Ma… ma… tutto questo… cos’è?». In fondo la prova “macelleria” sarebbe un buon test per misurare il grado dell’ipersensibilità: se provoca una reazione immediata e violenta (voltastomaco com­preso) allora nella coscienza potrà accendersi uno spotlight al neon: “Benvenuto sul pianeta Terra!” (ma fate attenzione! Potrebbe essere propaganda pure questa).

 

TIR sbanda in autostrada

TIR sbanda in autostrada

 

La moderna coscienza dialettizzata è diventata talmente duttile, che l’abuso del metodo due-pesi due-misure, sem­bra non preoccuparla minimamente. Ormai ha imparato a scorrazzare sbilenca e trasversale, buttandosi tutta a destra e poi tutta a sinistra, da sembrare un autotrasportatore in pre­da all’ebbrezza etilica, che danza col suo TIR in autostrada. Ma lei, coscienza moderna, tuttavia, continua a ritenersi so­bria, accostumata e giudiziosa. E se qualcuno osa interfe­rire, o peggio redarguire, allora ecco pronto a scattare lo slogan della falsità politicizzata, comodo per ogni occasione: «Qui si vuol limitare il mio diritto alla libertà!». Allora giustamente impensieriti, critici e oppositori devono fare un passetto indietro; e dopo breve consulto, si permette al TIR di proseguire nel suo ondivago andazzo. Le merci, si sa, soffrono di deperibilità e devono arrivare a destinazione. Semmai, a difesa degli altri utenti, ci sono sempre i bollettini radio e gli avvisi dei tabelloni luminosi, ad informare del possibile pericolo incombente sul tronco stradale.

 

Rendere oggetto d’interminabili faticose discussioni il numero eventuale dei commensali da far sedere allo stesso tavolo del ristorante; la spasmodica ricerca dell’ora giusta per iniziare il coprifuoco sanitario  22.30? 23.00? 24.00? All’alba ?) quando, dall’altra parte, in tutt’altra prospettiva, si concede di riempire gli stadi di calcio fino a 40.000 presenze, non sono forse chiare manifestazioni d’incon­gruenza, penosamente mascherate da ampollosità retorica, da scalette di esigenze primarie mischiate a quelle preferenziali di fazioni, logge e congreghe?

 

I vertici dei presídi mondiali della sanità tentano di avvertire che nel quadro di una possibile ripresa della variante pandemica, non sia tanto da vietare il gioco del calcio, ma sia piuttosto da evitare di gio­care col virus. Chissà se negli animi di quanti non vogliono sentir parlare di sospensioni e restrizioni (ovvero, in primis quelli che sul calcio lucrano a tutto spiano e, in secondo piano, anche quelli che tifano con commovente trasporto) prevarranno buon senso e cautela, oppure la brama d’arricchimento e la temerarietà sconsiderata finiranno per avere la meglio?

 

Ho il sospetto che sia proprio questo tipo di dicotomia a creare le differenziazioni; le differenziazioni formano le diversità, e poi queste vanno ad alimentare il diversismo; che – puntualmente – un giorno sí e l’altro anche – giuriamo compatti e solidali di voler combattere.

 

Inghilterra-Italia: tutti in ginocchio

Inghilterra-Italia: tutti in ginocchio

 

In questo brilla, per ambiguità diplomatica, la posizione “ponzio­pilatesca” assunta dalla FIGC sul “minuto d’inginocchiamento pre-partita” da parte dei calciatori par­tecipanti all’EURO 2020 a soste­gno del “No Racism”: «Noi – ave­va comunicato il portavoce del­l’Ente – non forniamo indicazioni; ognuno è libero di fare quel che gli pare; da parte nostra consigliamo i giocatori tesserati di uniformarsi all’atteggiamento che gli avversari decideranno di assumere sul campo. E meno male che gli inglesi, inginocchiandosi, avevano espresso il loro rifiuto al razzismo, salvo iniziare subito a fischiare insultare con epiteti razzisti gli avversari. Molto si è detto sul fairplay del popolo britannico, ma temo che resti un equivoco di fondo che, stante le attuali forze in gioco (sul campo e fuori), diventa sempre piú difficile da sfatare. Prendiamola con ottimismo, ricordando l’antico detto: quando sulla Manica cala la nebbia, gli inglesi sono convinti che sia il continente a rimanere isolato (che la Brexit sia nata cosí?).

 

Vedi a volte come si può raggiungere l’equilibrio formale, pure attraverso una rete intricatissima di omissioni, reticenze, viltà e stratagemmi da quattro soldi. Ma – dicono – sai, l’equilibrio è comunque il risultato positivo di posizioni diverse giunte ad un accordo. È la dinamica delle polarità contrapposte.

 

Già; le polarità contrapposte: stavo dimenticandole. Per secoli sono state studiate come la prima mec­canica dell’universo, ma finiscono per dare un senso compiuto solo nella misura in cui siano foriere di aggregazione, di compatibilità, di sinergie costruttive, pur conservando indelebili le tracce della separa­zione e dell’isolamento distanziale. Anzi, grazie proprio a queste si è reso possibile il rinnovo strutturale necessario ad un corso di vita in cui la luce dell’antica origine possa risplendere ancora.

 

Il guaio è passare dal “sí” al “no” interiori, senza aver colto lo scostamento, guidati solo dalle forze istintive e primordiali, che sono state un toccasana fintanto che dovevamo combattere i mammouth, e il possesso di una pozza d’acqua era la ragione di sopravvivenza per una tribú.

 

Ma se le leggi degli opposti fossero invalicabili, se avessero un senso soltanto nel farli opporre e basta, non avremmo potuto costruire barche di metallo che galleggiano sul mare, né tanto meno aerei che salgono e scendono dal cielo in tutte le parti del mondo.

 

Quindi non c’è materia che sia irriducibilmente opposta allo Spirito, e non c’è uno Spirito che non possa compenetrare la materia. Tutti gli opposti restano opposti fintanto che in mezzo non appare qual­cosa che abbia l’intrinseca capacità di esprimere un potere vincolante e congiuntivo.

 

Infatti qualcosa di speciale c’è nell’anima dell’uomo: a volte si convince di poter starsene comoda adagiandosi nella realtà sensibile; altre volte, invece cerca conforto nella condizione contraria, tende ad una sua elevazione metafisica, la vuole, la persegue con forza. Il conseguente risultato è di dover ri­sistemare, dopo ogni virata, il modello concettuale costruito su se stessa e sul mondo; nonché le risorse per aderire in un modo diverso al corso della vita.

 

È un’altalena piuttosto complessa; logorante ma tuttavia utile per dar risposta a tutte le domande che è costretta a porsi, stazionando ora in vista dei mondi superiori, ora nelle albe e nei tramonti che la natura planetaria le offre. Separati, ambedue i livelli, dal momento che le sono percepibili, vengono accolti co­me verità incontestabili; i tentativi di conciliazione tra gli opposti, li riportano necessariamente su un piano in cui la loro fusione, ancora maldestra e misconosciuta, viene da lei interpretata, nei momenti di debolezza, come iperbolica.

 

yin-e-yang

 

Ma ciò non toglie all’anima la funzione essenziale: quella di essere il trait d’union tra la terra e il cielo, tra la luce e le tenebre, tra il bene e il male, tra il mondo divino-spirituale e quello della corporeità fisico-sensibile. Deve imparare a trarre dal mondo so­vrasensibile le forze che possano illuminare quello sottosensibile.

 

La dimenticanza, il trascuramento ed anche la semplice inosservanza di una simile potenzialità, innata e comune a tutti gli appartenenti al genere umano, è la causa prima dello sbandamento, dello squilibrio, del­l’indecisione. Rispettivamente queste degenerazioni riguardano la funzionalità del fisico, la disarmonia del­l’anima e la rassegnata vacuità del pensare ordinario che si reputa incapace di volare oltre il proprio nido.

 

Per cui il vero senso dell’esistere su questo mondo è quello di dedicare il nostro impegno, assiduo e tenace, a liberare l’anima dallo stato di profondo letargo in cui l’abbiamo lasciata cadere, per nostra colpa, certamente, ma anche per l’azione potente di forze avverse all’umano; forze che non vogliono permettergli una rinascita interiore; che tendono ad appiattirgli ogni suo minimo impulso alla rivivifica­zione, al ridestarsi della consapevolezza superiore, mediante una serie infinita di promesse, lusinghe, seduzioni, illusioni, pressioni e minacce, alternate ed ininterrotte; in pratica, accendendo nei cuori umani speranze di libertà condizionata o tentazioni di metter fine ad un travaglio creduto superfluo.

 

Di superfluo però c’è solo il vederlo tale e poi crederci; se infatti la verità sull’uomo fosse contenuta dentro l’impossibilità di rendersi promotore e libero co-artefice del divenire, allora da molto tempo, avremmo smesso di almanaccare in merito e di ricamare leggende filosofiche sui possibili rapporti tra i nativi della terra e gli spiriti dell’universo; in fondo, Richard Wagner lo aveva già fatto meglio di tanti studiosi, artisti e poeti; tra l’altro musicandolo egregiamente.

 

Eppure la sua visione magica ed illuminante ad un tempo, non poté evitare il proprio Crepuscolo; l’anima potentemente legata alla terra prelude sempre alla fine, alla morte; non ne può fare a meno; pure nei momenti piú intensi di vita, è sempre presente dietro le quinte, il fantasma del cupio dissolvi, che giustamente rivendica l’importanza del proprio ruolo.

 

Questa è soltanto una mezza verità; ignorando tuttavia la parte che manca, appare come l’unica con cui potersi confrontare.

 

Chi invece ci ha donato l’Antroposofia, chi ha saputo predisporci il cammino verso la Scienza dello Spirito, lo ha fatto perché conosceva fino in fondo l’occulta intimità dell’anima umana, ovvero il valore della sua funzione piú segreta.

 

Sperimentata la fertilità, intesa la capacità di germogliare all’infinito, anche il transitorio custode della sua immortale presenza, chiamato Uomo, saprà cogliere in lei l’evenienza della metamorfosi e la rispet­terà con l’amore che merita. Pertanto, quando viene il tempo (e il tempo arriva sempre) si adopererà con la saggezza e la responsabilità dovute, affinché qualcosa che già fu in antico, possa rinascere in forma del tutto nuova; stavolta, forse, indipendente dai limiti della terrestrità.


 

«Rallegrati, dunque, Ananda, e consolati; nulla c’è di piú bello che scoprirsi destinati a grandi mete, tali da coinvolgere non solo se stessi e il genere umano, ma anche la Terra, i mondi e di conseguenza l’intero universo; è l’impresa epica per eccellenza; se la tua anima ha pensato bene di nascere sotto questo sole, e rivestirsi di questa tua carne, non poteva certo essere per un motivo inferiore. Perciò affrettati, Ananda; che la strada è lunga e non hai a disposizione l’eternità per percorrerla».


 

Non come Ananda, almeno…

 

 

Angelo Lombroni