Burckhardt, Sen Gupta, Battaracharya, Bosworth

Recensioni
Arte sacra in oriente e occidente

di Titus Burckhardt

Titus Burckhardt

 

L’elemento di eternità che anima l’atto creativo dell’artista, appare come una diretta qualità dell’immaginazione nell’arte sacra. Burckhardt ci mostra come l’origine dell’arte sia religiosa; egli attinge alla sua esperienza di artista e filosofo dell’arte, contemplando l’elemento originario dell’atto creativo, come religioso, nell’arte cinese, giapponese, indiana, buddista, islamica e cristiana.

 

L’opera d’arte contiene la stessa attività interiore richiesta dalla comprensione metafisica. Lo scopo dell’arte sacra è quello di cogliere alla sua fonte l’elemento creativo che è normalmente espresso attraverso il pensiero e il linguaggio. In effetti, il creatore dell’arte religiosa riesce a sopprimere in sé ciò che di solito è espresso nella dialettica, cioè la facoltà della rappresentazione e della memoria; raggiunge cosí una qualità piú profonda dell’anima, l’universale, che opera a un livello fisso come guida interiore dell’umanità. Il Divino raggiunge l’umanità e si esprime nelle Tradizioni, attraverso esseri qualificati che sono Sacerdoti – nel senso sacro antico della parola – o Iniziati: colui che esprime cose sacre è uno di questi. Un simile artista è portatore della direzione spirituale dell’umanità. Quando un tale portatore non è presente, si potrebbe dire che un canale tra i mondi superiore e inferiore è stato interrotto. Il sensibile è sostenuto dal sovrasensibile; il sensibile è completamente un simbolo di mondi e forze extrasensibili. L’artista antico, o tradizionale, lo sapeva e creava aprendosi a questa corrente metafisica: il sentimento era il suo veicolo immediato. Certamente non era il sentimento dell’uomo moderno, che è divenuto piuttosto ottuso, ma un sentimento che si espandeva nel regno cosmico con il potere dell’impersonalità. Possiamo trovare una costruzione di qualità geometrica organica nella piramide egizia, come nel frontone del tempio greco, che non è un’espressione matematica, ma quella della “superiore intuizione del sentimento”, che riesce ad esprimersi matematicamente, ovvero in una forma, in se stessa pienamente esplorata, che risponde alle leggi della matematica.

 

Nell’espressione della curva, come si trova in volte, cupole, archi, rosoni, colonne e sfere tangenziali ecc., si può riconoscere il potere creativo di un elemento sovrasensibile piú profondo, o piú dotato di vita e di movimento, corrispondente a quello che si manifesta nell’uomo come volontà. Nella volontà il sacro ha il suo piú dinamico veicolo: l’opposizione di linea a linea, anche se con la necessità di un angolo è superata dalla linea curva che simboleggia la non-interruzione, o la continuità, e quindi la fluidità della forza creativa. Il rapporto interiore tra le forze che si esprimono nella linea retta, la linea sempre interrotta per esigenze espressive o formali, e le forze che si esprimono nella curva e nel cerchio, era posseduto dagli artisti del sacro come una sintesi superiore delle forze che si manifestano nelle correnti del pensiero, del sentimento e della volontà. Questo è il perché l’arte moderna può occuparsi formalmente del sacro senza essere essa stessa sacra.

La sintesi di quelle facoltà dell’anima che una volta davano all’artista la possibilità di esprimere il sacro, a condizione che la coscienza non intervenisse con l’elemento individuale-razionale, potrebbe scaturire oggi di nuovo soltanto da una superiore esperienza del pensiero e della volontà: solo questa potrebbe essere una esperienza cosciente di quella sacralità che è all’origine dell’arte. In questo senso la contemplazione delle opere degli antichi maestri è illuminante, in quanto può essere assunta come esercizio interiore di un’attività estetica consapevole.

 

L’opera di Burckhardt evoca bisogni segreti dello Spirito attraverso l’evidenziazione dei motivi dell’arte sacra. La sua è piú che una critica estetica: è un’indagine intuitiva che coglie le forze perenni ancora presenti negli interiori recessi umani, ma ignorati dalla coscienza razionale. Queste forze potrebbero eventualmente essere attirate dalla contemplazione delle forme originarie del sacro. Fondamentalmente, le forze che originariamente operano nell’anima hanno bisogno esse stesse di sollecitazioni di valore originario. Cosí, l’elemento artistico diventa una forza di conoscenza, nel senso integrale del termine; cioè un legame tra l’umano e il sovrumano, o del sensibile con il sovrasensibile. Si potrebbe dire che tutta l’arte tradizionale ha avuto il sentimento come qualità mediatrice, ma ha sempre attinto alle correnti superiori, impersonali del pensare e del volere: quando questa possibilità è scomparsa, con l’arrivo del mondo moderno – e già nei primi secoli dell’era cristiana, il rapporto dell’arte con il sovrannaturale era entrato in crisi sia di ispirazione che di noesis – il sentimento continuava infatti la sua funzione mediatrice, ma non si occupava piú di fattori sovrasensibili. La sua preoccupazione cominciò a riguardare fattori sensibili e limitati. Il pensiero, perdendo gradualmente coscienza del primo momento sovrasensibile, accoglie il sensibile come proprio contenuto: perde la capacità di percepire come contenuto il proprio moto non sensibile, indipendente dal sensibile.

 

Tale pensiero, nonostante possa concepire e rappresentare il “sacro” in sé, non lo trova piú, dato che non lo ha nel proprio moto, come momento sovrasensibile. Si intravede il pensiero “desacralizzato” nel pensiero riflesso ordinario. Qui va chiarito che non è il sentimento, religioso o spiritualistico o fedele alla tradizione, che può superare questo limite del pensiero odierno riflesso, o razionale, ma il pensiero stesso, grazie a un atto su se stesso, un atto che non è filosofico o speculativo, ma vivo, o dinamico, un atto di autoconversione. L’elemento sacro può essere richiamato, o evocato, dalla contemplazione delle forme artistiche del sacro; questo è l’aiuto che può venire dalle piú grandi opere degli artisti d’Oriente e d’Occidente, ma la sua vera resurrezione è un compito di superamento di un limite al quale la mente non è estranea: lo tiene in sé. E la tradizione non può aiutarla a superare questo limite, perché la mentalità razionale desacralizzata nasce dalla rinuncia all’impulso metafisico della tradizione. Non può riscoprire la tradizione; e se potesse, la ridurrebbe a un’esperienza critica, intellettualistica, anche se animata da significati esoterici e confortata da connessioni rituali e regole cerimoniali. Ma niente di questo lo aiuterà a superare il limite che alberga in lui.

 

Questo è il problema maggiore per chi vuole rimanere fedele alla tradizione: il limite del pensiero riflesso può essere superato solo dal pensiero stesso, che percepisce nella consapevolezza della riflessività il proprio movimento di liberazione dalla condizione riflessa. L’insegnamento tradizionale non può dare i mezzi per superare il limite; ma è il superamento del limite che le dà modo di raggiungere le forze perenni della tradizione. Infatti, il limite riguarda infatti il momento di autonomia del pensiero e la sua possibilità di autoidentificazione. Questo è un problema del tipico processo del pensiero razionale, che non può essere colto attraverso il prodotto razionale del pensiero stesso, né influenzato da alcuna conoscenza metafisica (dato che ogni conoscenza arriva ridotta alla dimensione riflessa). L’operazione richiesta al pensiero è l’esaltazione di se stesso; che solo può essere appreso dal pensiero che sia in grado di convergere verso se stesso, facendo uso positivo del moto autonomo del proprio momento riflesso. Questa operazione non è filosofica, o speculativa, o dialettica, ma pratica, esigendo un uso piú consapevole dell’elemento individuale della volontà. Il sacro può sorgere in un pensiero capace di liberarsi dal sensibile, per il fatto che deliberatamente accetta la propria restrizione.

 

 

Massimo Scaligero


Titus Burckhardt, Sacred Art in East and West

London, Perennial Books, 1967

Tratto da: East and West, Settembre-Dicembre 1969, Vol. 19, No. 3-4.

 




 

Uno studio critico della filosofia di Ramanuja

di Anima Sen Gupta

 

Ramanuja

 

La presenza di Ramanuja nell’anima culturale dell’India è sempre significativa, se si ricorda che l’idea della consapevolezza è oggi nuovamente in crisi, poiché il pensiero razionale conduce a una serie di problemi la cui soluzione richiede qualcosa al di sopra della razionalità. La razionalità può porre i problemi, ma non risolverli, a parte quelli di tipo matematico-fisico. L’aiuto che può venire dalla dottrina di Ramanuja è evidenziato da Anima Sen Gupta attraverso un esame dei vari aspetti di quella dottrina: epistemologici, metafisici, etici e teologici.

 

In effetti, Ramanuja non è stato il creatore di un nuovo Vedanta, ma colui che ha riportato l’insegnamento alla sua sorgente originaria, alla personalità dei pūrvācāryas, ovvero agli antichi Maestri come Bodhāyana, Tanka, Dramida, Guhadeva, Kapardi e Bharuci. Per Ramanuja il bhakti-yoga, essendo il veicolo dell’anima individuale verso il Divino, è anche la via della comprensione, che ci porta a distinguere il puro elemento interiore della prakriti.

 

Viśiṣṭādvaita

 

La Viśiṣṭādvaita non è una via di mezzo tra monismo e dualismo, ma una visione sintetica che giustifica il dualismo monisticamente. Una comprensione che meglio si armonizza con la visione advaita può condurre solo alla comunione con il Brahman, espressa attraverso la bhakti; ma è quest’ultima che porta a sua volta alla piú profonda integrazione con il Brahman.

 

L’Autore riprende questo tema e lo sviluppa criticamente: lo rende in tal modo riconoscibile nei termini della filosofia moderna, e cosí facendo sottolinea il suo elemento di valore perenne rispetto alla necessità di comprensione tipica del­l’uomo contemporaneo.

 

 

Massimo Scaligero


Anima Sen Gupta, A Critical Study of the Philosophy of Ramanuja

The Chowkhamba Sanskrit Series Office, Varanasi-1 1967, XXXII.

Tratto da: East and West, Settembre-Dicembre 1969, Vol. 19, No. 3-4.

 




 

Realtà nella metafisica Jaina

di Hari Satya Bhattacharya

 

Reals in the Jaina Metaphysics

 

La realtà, per come si presenta nell’esperienza quotidiana, sembra contraddire lo Spirito. È questa contraddizione che risveglia le forze del pensiero umano, della filosofia, della necessità di un accordo o di una sintesi. L’Autore analizza il possibilismo dialettico della Metafisica Jaina con l’intento di mostrarci come la contraddizione possa essere superata se la radice di ciò che appare come realtà esterna può essere riscoperta metafisicamente. La dialettica può valere solo come forma dell’esperienza metafisica.

 

Le categorie ontologiche e gnoseologiche, padārtha, che costituiscono i punti fermi della realtà secondo il sistema Jaina, sono utilizzate da Hari Satya Bhattacharya secondo il pensiero moderno, capace di logica analitica e di sintesi concettuale.

 

In tal modo, la vecchia metafisica assume la fisionomia di un idealismo capace di penetrare nella sfera sensibile e nell’essenza dello spazio, del tempo e della materia: tutta materia familiare al filosofo occidentale.

 

Karma

 

Ma c’è un elemento che anima l’edificazione dialettica che la filosofia occidentale non possiede, o possiede solo come nozione: l’idea di karma. Troviamo in esso la forma di una causalità trascendentale che si inserisce nelle vicende umane, fino al punto di un’assoluta immanenza.

 

Ciò che la filosofia occidentale ha chiamato il “senso della storia” può essere considerato un esempio dell’idea di karma; oggi questa idea deve essere sostenuta dalle forze di un razionalismo che pervada l’intero ambito della cultura umana.

 

Questo lavoro di Bhattacharya soddisfa tale necessità.

 

 

Massimo Scaligero


Hari Satya Bhattacharya, Reals in the Jaina Metaphysics

The Set Santi Das Khetsy Charitable Trust, Bombay 1966, XII

Tratto da: East and West, Settembre-Dicembre 1969, Vol. 19, No. 3-4.

 




 

Le dinastie islamiche

di Clifford E. Bosworth

 

The Islamic Dynasties

 

Questo è il quinto volume della serie “Islamic Surveys”; si tratta di un manuale cronologico e genealogico delle dinastie islamiche, in un elenco storico-razionale arricchito dalla bibliografia di ciascun gruppo.

 

Clifford Edmund Bosworth

Clifford Edmund Bosworth

 

In esso possiamo seguire non solo il quadro storico, ma anche la serie di legami caratteristici di ciascuno, e il loro rapporto tra una dinastia e l’altra, in un tempo particolare.

 

L’espansione dell’impero arabo-islamico

L’espansione dell’impero arabo-islamico

 

Dinastie, popoli e tribú passano davanti ai nostri occhi fin dai tempi dei Califfi, dandoci un’immagine del grande movimento delle forze politiche che hanno guidato il mondo islamico, dalla Spagna al Nord Africa, all’Egitto, alla Siria, alla Penisola Arabica, all’Iran, al Caucaso, alla Persia, verso i Mongoli, al­l’Afghanistan e all’India, secondo un processo nel tempo che evolve anche nello spazio.

 

 

Massimo Scaligero


Clifford E. Bosworth, The Islamic Dynasties

Edinburgh, The University Press, 1967.

Tratto da: East and West, Settembre-Dicembre 1969, Vol. 19, No. 3-4.

 




 

Link agli articoli in inglese: “Burckhardt, Sen Gupta, Battaracharya, Bosworth”