Perché io sono io...

Considerazioni

Perché io sono io

Tanti io

 

Io faccio, io dico, io penso, io vo­glio, io vado, io torno, io mi spacco in quattro, io sgobbo tutto il giorno, io son fatto cosí, io no comment, io spero che… Ma quanti “io” stanno su questa terra? E quanti ne porta dentro ciascuno di noi? Mi viene da dire: “legioni”, ma non voglio esondare oltre il segno, cosí, fin dalle prime battute.

 

Diciamo per ora che abbiamo molti “io”; ognuno di noi è un multi-io e li adoperiamo di continuo, in gran quantità, anche se non ci accorgiamo di una cosa: quasi mai l’io che sosteniamo di essere in un particolare momento, in una data circostanza, è identico a quello che, in un’altra sede e in un’altra situazione, magari mezz’ora prima o dopo, abbiamo sostenuto di essere e pure con una certa foga, per non dire veemenza.

 

Mentre ad ogni io corrisponde in genere un unico carattere umano, sembra che ogni personaggio carat­terista (caratterista, in quanto figurante generico) possa usufruire di una notevole scorta di io; un po’ come si fa con i vestiti, le scarpe o le cravatte per i signori-io e le borsette per le signore-io. Ciò appare una specie di vantaggio, se si tien dietro al vecchio adagio dell’Abbondanzio, per cui “chi piú ne ha, piú ne metta”.

 

C’è pure una certa tendenza a dar sfoggio dei propri io; un io per ogni occasione: un io per andare a messa alla domenica, uno per scendere in piazza a manifestare contro il Governo; un io in smoking per una serata di gala, per un anniversario da celebrare; un io da esibire alla guida della moto nuova; un io avvilito per un controllo della Polstrada; un io rancoroso e vendicativo per la perdita dell’im­piego; un io romantico per offrire un mazzo di rose ad una bella signora; e un io cafone e sboccato per chi ti ha fregato d’un soffio l’unico posto libero del parcheggio.

 

Ma questi sono esempi terra-terra; diciamo di basso profilo. Andiamo a cercare prove maggiormente eclatanti per dimostrare quel che ci sarebbe da dimostrare, altrimenti restiamo impastoiati nella cronaca di quarta pagina che, quanto a dimostrazioni, è già autosufficiente.

 

Alcuni io, legati a personaggi notevoli dei giorni nostri, ricoprenti cariche e funzioni di rilievo, han­no di recente, in pubbliche interviste, espresso il loro pensiero, nei temi che seguono:

 

 

a proposito del vaccino anti Covid 19: «Vaccinarsi è un atto di amore, per se stessi, per il prossimo, per tutti i popoli»;

 

aproposito delle guerre in genere: «L’unica cosa vera di tutti i conflitti, sono le vittime»;

 

a proposito delle ultime vicende afghane: «Com’è potuto accadere?».

 

 

Sono affermazioni che inducono a pensare; infatti a chi le ha udite viene la voglia di rifletterci su; sono frasi intelligenti, serie, hanno un sapore moraleggiante che non si può ignorare, e perciò appaiono am­piamente condivisibili; ma ad un tempo, sono anche terribilmente monche; soffrono per qualcosa che manca, che non viene detto (o che non si vuole dire), che non è stato reso esplicito con la dovuta chiarezza; qualcosa che si è smarrito in un maramaldismo qualunquistico ove pure l’affermazione piú verace ed elegante, finisce per lasciare il tempo che trova; un tempo brutto, inclemente, livido, uggioso come i rimorsi di una vita malvissuta; quelli che stroncano illusioni, avviliscono speranze, spengono perfino quei timidi accenni di amorevolezza e di solidarietà per una moltitudine umana stordita, afflitta, che ne avrebbe un estremo bisogno; ma non rilevando la mancanza, ognuno s’arrangia come può e in qualche modo impara a sopravvivere facendone a meno. Per molti il prossimo inverno sarà lungo.

 

Naturalmente le obiezioni da Bastian Contrario superano sempre di gran lunga le affermazioni, in quanto è nella natura umana sentirsi commissari tecnici dopo le partite della nazionale di calcio e saggi sentenziosi quando c’è da far la punta alle opinioni altrui, ma se dovessi intervenire di mio per dare un senso compiuto agli outing citati, farei cosí:

 

Per quanto riguarda la vaccinazione: ammettiamo che si possa compiere come gesto di amore in di­fesa della salute di tutti; ci dicono che attualmente non vi sia nient’altro di applicabile e che se vogliamo arrestare il contagio, vaccinarsi è una strada obbligata. Questo però presuppone che a monte si abbia ma­turato un pensiero positivo e fiducioso nei confronti del siero, e non solo, ma anche delle industrie farma­ceutiche, e della integrità morale di quanti a vario titolo sono addetti alla produzione, alla distribuzione e alla commercializzazione del presunto antidoto. Perché è evidente che, se in questa lunga trafila di cor­responsabili, vi fosse qualcuno che anteponesse gli interessi personali alla finalità mirata dell’operazione sanitaria, allora qualche riflessione di contrasto non solo sarebbe lecita, ma anche essenziale.

 

L'avvertimento

L’avvertimento

 

Lo strepitío delle oche del Campidoglio, nel­la storia di Roma, probabilmente rappresentò piú volte una seccatura; ma nelle poche in cui invece si rivelò un fondato allarme, salvò vite umane e l’Urbe stessa. Le voci di chi canta fuori dal coro, anche se poco gradite all’élite, andrebbero ascoltate con maggiore attenzione.

 

Guerre e vittime di guerra: sí, certamente, è innegabile che queste ultime restino una realtà di fondo che forse solo lunghi periodi di tempo possono far dimenticare; se tuttavia si vuole di­mostrare l’insana follia umana che conduce al­la guerra, si resta nella parzialità di una visione riduttiva; la follia umana non si esplica totalmente nei bombardamenti, nelle battaglie, nelle pulizie etniche o nei campi di prigionia; semmai questi sono gli apici che costellano cronache e libri di storia.

 

Guerre

Guerre

 

La follia umana è molto piú vasta, stratificata e suddivisa in dosi talvolta cosí minuscole che non sono sempre rilevabili con puntualità e precisione; non già perché la guerra non sia quella mostruosità che in effetti è, ma perché basterebbe pren­dersi la briga di andare a controllare le statistiche, relative ai periodi di pace, e fare una semplice ad­dizione di coloro che sono rimasti vittime di violenze occasionali, di alcol, di abuso di stupefacenti e di incidenti stradali dovuti alle note intempe­ranze degli io-automobilisti.

 

Le guerre, almeno, hanno in sé la scusante (per cosí dire) di un odio collettivo divenuto ormai inarrestabile; ogni barbarie bellica accade sempre in un quadro in cui l’uomo non è piú un uomo ma un subumano posseduto da forze avverse che non gli permettono di vedere con obiettività quello che sta succedendo attorno a lui né quello che lui stesso compie in quella situazione.

 

Chi non sa, ignora, e chi ignora fa del male a se stesso e agli altri; non per nulla Gandhi affermò che ogni guerra è lo scontro di due ignoranze. Ma di quelli che muoiono (e che lasciamo morire ogni giorno per ragioni che non c’entrano minimamente con le guerre) cosa dobbiamo dire? Cosa dobbiamo pensare? I numeri delle statistiche sono spaventosi: para­gonati al numero delle vittime di guerra, risultano largamente superiori. Ovviamente il computo delle prime riguarda i periodi limitati ai conflitti, mentre per le altre valgono il calendario e le pagine dei notiziari quotidiani.

 

La considerazione conclusiva è che se l’io-uomo-odierno continua ad alimentare in sé i tormenti che lo portano all’esasperazione, senza darsi la pena di estinguerli, prima o poi essi dilagheranno in guerre e conflitti, con una motivazione qualsiasi che, in circostanze ben maturate dopo lunga cova, è facile reperire: libertà, democrazia, uguaglianza sociale, parità di diritti, culti e controculti, sono da sempre gli slogan piú sbandierati per arrogarsi il diritto di spaccar la testa a qualcuno, ostentando il patentino del “Revenger” duro e puro.

 

Ed arriviamo quindi all’ultimo interrogativo, quello che a mio parere è anche il piú preoccupante; nell’udirlo, mi ha fatto sobbalzare sulla sedia; la domanda è pleonastica, retorica; piú che una domanda è uno sfogo personale, tanto breve e lapidario quanto triste e sconfortante, perché svela senza ombra di ritegno, pesanti lacune in un atteggiamento di celata complicità che finge di non vederle.

 

Sembra davvero impossibile che una tale esternazione esca dalla bocca di un io insignito dell’inca­rico di Alto Rappresentante dell’Unione Europea con delega agli Affari Esteri e alle Politiche di Sicu­rezza. Sforzandomi, arrivo a capire chi ferisce qualcuno maneggiando incautamente petardi e fuochi artificiali nella notte di Capodanno; ignoranza, inettitudine, superficialità possono causare molti errori; è risaputo; non sarebbe perdonabile ma, come si suol dire col senno di poi, date le premesse, c’era da aspettarselo; in quei casi, il piromane occasionale cerca una pezza giustificativa; smarrito, contrito mor­mora tra sé e sé: «Non potevo immaginare che finisse cosí!».

 

Per contro, quando un’espressione di tal sorta, una topica macroscopica di questo calibro, viene fuori, direi quasi sotto forma di candida confessione, da parte di chi è stato prescelto ad un determinato compito istituzionale (superando tutta la serie di ostacoli e di concorrenti, spesso agguerriti ed ambiziosi e pertanto sicuramente provvisto di una certa lungimiranza geopolitica) il fatto diventa talmente assurdo che mi auguro (per lui e per noi) possa essersi ingenerato da un equivoco o da una frase giornalisti­camente distorta.

 

In aereo verso l'Italia in fuga da Kabul

In aereo verso l’Italia in fuga da Kabul

 

Di fronte agli accadimenti afghani degli ultimi mesi e alla notizia che l’esercito americano si sarebbe ritirato (notizia risa­lente ancora alla precedente amministrazione USA) chiunque dotato di una elementare funzionalità pensatoria, avrebbe sa­puto prevedere il caos che ne sarebbe conseguito con tutti gli annessi e connessi. Ma evidentemente è una riflessione troppo complessa per quanti ritengano la scatola cranica una bio-men­sola per i capelli.

 

Tuttavia fintanto che si resta nel campo degli stupori negativi e si continua a sottolineare l’errore altrui, con l’intento (non dichiarato ma sempre presente) di spargere ulteriore benzina sul fuoco dell’indignazione, non faremo altro che procrastinare la situazione umana in cui versiamo e che, grazie alle deficienze di terzi, ogni tanto ci permettiamo di rilevare, qualche volta in modo composto e sobrio, ma nella maggior parte dei casi, inveendo e strillando ai quattro venti, sicché tutti abbiano contezza del nostro disappunto e, quel che piú importa, della nostra totale estraneità ai fatti e alle parole incriminate o incriminande. I peccati mortali appartengono sempre agli altri; noi, semmai, ne abbiamo pure commessi alcuni, ma in genere minimi, di piccolo taglio, scusabilissimi; so­prattutto motivati da particolari circostanze umanamente inevitabili.

 

Scoppio del palloncino

 

Cosí ragiona l’io, quello piccolo; talmente piccolo da risultare praticamente microbico, tuttavia eserci­tante un potere capace di farsi beffe di ogni limitazione psicofisicosensibile; cosí ragionano i numerosi io, di cui, noi esseri umani, venendo al mondo, abbiamo presto imparato a fare ampia provvista.

 

Ma qui oggi non vogliamo dilungarci a parlare di questi io, anche per­ché piú se ne parla e piú si allargano, diventano simili a palloni gonfiati, e giunti ad un certo punto scoppiano, dato che per legge fisica (un’ottima, benevola legge fisica!) tutti i palloni gonfiati devono prima o poi scoppiare. E piú sono grossi, piú fanno rumore.

 

Penso, pensiamo, un altro io; pensiamolo con la maiuscola: Io. Al mo­mento frastornati dalle continue esigenze impellenti degli io necessitanti fino alla soffocazione, sembra difficile definire il nostro Io, l’unico e solo Io che abbia il diritto di chia­marsi cosí. Chi è dell’opinione che l’Io spirituale dell’uomo sia un qualcosa in cui ci sia soltanto da credere, non deve aver mai incontrato e meditato i pensieri di Massimo Scaligero né tanto meno quelli di Rudolf Steiner.

 

Eppure non occorrerebbe scomodare gli indottrinamenti catechistici, o le letture dei testi antroposofici; i primi infatti nulla sanno dire dell’Io, se non attraverso un cauto accostamento assistito del sentire, che da solo non può certo concludere il percorso; e i secondi, consultati anche nel dovuto/devoto rispetto, non svelano le verità di cui sono portatori, ove il lettore, o i lettori, non smettano di leggere e rileggere i caratteri stampati sulla carta e non vadano a ricercare, dentro l’umana esistenza pratica della vita quotidiana, i fondamenti degli stessi princípi appresi in teoria.

 

Obiettività e consapevolezza, ripeteva, molti anni addietro, un caro amico. Mi aveva preso a ben­volere e non esitava a dispensarmi la sua saggezza in pillole. Devo ammettere che queste due parole (obiettività e consapevolezza) si sono fatte strada dentro di me, incrociandosi con molte e combinandosi con alcune altre, in modo che, nel tempo, mi sono ricomparse spesso sotto forma ora di “idealismo ed em­pirismo”, ora sotto quella di “pensiero e vita vissuta”, per approdare alfine ai concetti di “conoscenza e moralità”. Per l’uomo di oggi, giungere al concepimento di un concetto astratto rappresenta il consegui­mento del massimo traguardo intellettuale e psichico, accessibile mediante rafforzamento progressivo delle facoltà naturali. Rudolf Steiner ci ha dato la possibilità di andare oltre ai concetti di conoscenza e di moralità. E non solo grazie al potenziamento dell’intelletto, ma di tutto l’organismo psicofisico. Si discute spesso ai nostri giorni di conoscenza globale e si studiano i mezzi piú adatti per realizzarla.

 

Ma come si vede facilmente, la moralità resta tagliata fuori; pare proprio che non interessi a nes­suno, che non possa considerarsi come l’altra faccia di un catalizzatore animico, quello che è in grado di ricongiungere l’io che l’uomo dice di essere con l’Io spirituale che effettivamente è, ma che deve ancora imparare a distinguere per identificarvisi compiutamente.

 

Dante

 

Padre Dante poetò il suo celebre verso: «…fatti non fo­ste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza». Ma chi ascolta, nell’A.D. 2021, il canto di un poeta, anche Sommo, anche se Illuminato? Eppoi, scusate, quel termine “canoscenza”… Non sapeva il celebre Fiorentino che si dice conoscenza con la “o” e non canoscenza con la “a”? E poi lo chiamano il Padre della lingua italiana!

 

Come vedete, neppure il mio buon professore di italiano del liceo, con tutta la sua severità, avrebbe potuto far tacere il piccolo io, saccente e prepotente quanto un galletto allevato in una palestra di arti marziali.

 

Il salto qualitativo proposto dal pensiero steineriano, espresso con chiarezza nella Prefazione alla seconda edizione della Filosofia della Libertà, ed in seguito ripreso e ribadito in molte altre occasioni, è delineato in maniera delicata e cosí disadorna, che non di rado accade a chi legge, studia e medita i testi antroposofici, di sorpassare quel periodo, quel passo specifico, perché il contenuto ivi racchiuso, sembra eccessivamente scontato. Nella fretta di continuare a leggere avanti, non si riesce a sostare su quei punti che pure son messi lí e sembrano attendere solo quanti non facciano dello studio una questione di quantità.

 

Non è facile (né potrebbe esserlo) ravvisare nelle parole di Rudolf Steiner i determinati tratti sa­lienti nei quali il Dottore descrive il metodo mediante cui il piccolo io dell’uomo moderno, può accostarsi all’idea che, forse, le facoltà umane del pensare-sentire-volere, l’anima e la coscienza, messe in una certa relazione armonica tra loro, diventino capaci di aprirsi un varco nel materialismo visionario in cui sono state allevate, relegate e imprigionate.

 

Nella parte sopraindicata della Filosofia, l’Autore ci fa toccare con mano la duplice fondamentale esigenza della vita dell’anima; la piú essenziale, radicale ed importante di tutte: da una parte, la sua presa di posizione di fronte a tutto quel che le può provenire attraverso scienza ed esperienza, dall’altra, il suo segreto piú intimo, palpitante (per taluni aspetti anche tormentoso) impulso a voler essere libera, a sentirsi incondizionatamente libera, senza avere alle spalle nulla che le possa offuscare la nuova luminosa dimensione da cui è attratta, al punto di sacrificare, nei casi piú drammatici, anche la vita fisica in nome di questa aspettativa; perché essa diventa ora un’aspirazione assoluta, irrinunciabile, qualcosa di estremamente diverso dalle libertà che, in quanto uomini, abbiamo invocato e continuiamo ad invocare in tutte le epoche, nelle varie parti della terra e in circostanze le quali, non di rado, sono lontanissime dalla pura idea della libertà.

 

Questa libertà (che corrisponde in definitiva ad un processo – compiuto – di svincolamento dell’io piccolo dalla conformazione che si è provvisoriamente costruito, simile ad un signorotto medioevale nella sua fortezza) può attuarsi – sostiene il Dottore – nella misura in cui l’anima sappia affrontare, in un determinato modo, il percorso della conoscenza, consapevole d’esser stata creata per questa, consa­pevole d’esser venuta al mondo non per specializzarsi in qualche settore del sapere, non per raffinarsi in una direzione che prevalga sulle altre, ma sempre considerando se stessa come un potenziale capace di promuoversi a trecentosessanta gradi, espandendosi in molteplici direzioni; quelle dove volontà e de­stino la portano, e dove essa medesima ambisce venir portata. L’antico binomio astratto (e forse anche romantico) di “Obiettività e Consapevolezza”, adesso lo possiamo rileggere espresso in parole diverse: è il momento di “Conoscenza è Libertà”. L’accento sulla “e” non è casuale.

 

È la strada che dal piccolo io va all’Io superiore; la strada che un’anima, dapprima legata alle cate­gorie sensibili, può intraprendere nella misura in cui la coscienza, divenuta Autocoscienza, riesca a parlarle, a convincerla, a ricordarle la sua origine soprasensibile e il suo compito da attuare nell’incar­nazione terrena. Che poi è il segreto senso della vita. Delle varie vite, sulla terra e nei mondi spirituali.

 

Scoprire in ogni creatura umana un’apertura, una disponibilità verso questa sottile, precisa identità capace di accoglierla in un unico assieme; percepire in tale moto la corale amorevole adesione per un possibile futuro, di là dai come e dai perché, che nell’apparenza limitano ciascuno di noi al personaggio che in effetto è, in quanto soggetto passivo dell’esistere; intuire l’Io umano realizzarsi dal concorso caotico e soverchiante dei vari personaggi in lizza; amare con tutte le forze dell’anima la volontà in­dividuale di procedere comunque nella direzione decisa, trascinandosi dietro tutto il gravame dei piccoli io, scatenati in una lotta fratricida per la sopraffazione; e realizzare l’impresa giorno dopo giorno, vita dopo vita, costi quel che costi. Ecco: questo dovrebbe essere il senso che orienta il nostro cammino.

 

Una confluenza di infiniti piccoli io, che, alla fine, capiscono – sono costretti a capire – di non po­ter piú procedere in quanto io, perché questo segnerebbe la fine dell’umanità e la sconfitta dell’uomo; di dover quindi capitolare, sgretolarsi in modo totale, per far emergere quanto – pure quali piccoli io – racchiudevano già in sé di spirituale, di sacro, di eterno.

 

Seme che germoglia

 

L’io è simile a un seme, che arrivato al giusto punto di maturazione, grazie alle forze cosmiche che convergono su di lui, si schiude e ger­moglia; soltanto che in natura questo passaggio avviene senza ostacoli, in modo automatico; negli esseri umani invece il processo non si attua fintanto che l’io è in grado di adoperare le forze del corpo e della mente per opporsi, per non soccombere come io-ego; pur conscio che questa sua fine è ampiamente prevista e prevedibile per ogni incar­nazione terrena.

 

L’opposizione dell’io-ego al corso del suo destino; la sua cieca ostinazione a credere in una impro­babile libertà da godersi come ego; la sua brama di sapere, tesa unicamente a possedere i segreti del mondo, senza darsi la pena di studi, di sacrificio e dedizione, ma con il preciso indirizzo di utilizzarli quali poteri intimidatori; questa la ragione che induce gli io-ego a fare quel che in realtà stanno fa­cendo, la cui eco si riversa ogni giorno su noi tutti, frastornandoci senza tregua; pur tuttavia restando ben desto il vano principio d’autodifesa degli imbelli, convintissimi del loro non-coinvolgimento: «Che c’entro io con tutto questo?». Il che equivale al «Come è potuto succedere?» di prima.

 

È strano: quando qualcuno (in questo caso il buon vecchio marchese del Grillo) evidenzia in modo plateale e scostumato la realtà di una particolare situazione, come ad esempio, richiama la frase del titolo di questo scritto, il popolo degli io-non-coinvolti, ride, si diverte e conferma con allegra sintonia: «Sí, sí, è proprio cosí!».

 

Quando invece qualcuno, con sommessa, positiva riflessione, ci prospetta che “Non tutto il male vien per nuocere”, che “Ogni tenebra si dà per la Luce” e che ogni riscatto dipende dalle forze morali maturate dall’anima lungo la strada della conoscenza, allora nessuno, o quasi, se ne rallegra, né trova in questo enunciato il coraggio di non abbassare la testa di fronte all’incalzare degli eventi, spinti avanti dalla morbosa stoltezza degli Egoismi Uniti.

 

Nel paragrafo N° 1 del Primo Capitolo del libro Dell’Amore Immortale, Massimo Scaligero annuncia il compimento dell’isolamento totale e della solitudine degli io-ego vissuti e viventi; esso non può essere altro che “la profonda unità di tutti gli esseri”. Ma affinché una tale possibilità si dia, sarà prima necessario che in questi esseri sorga l’Io superiore; che sorga dalle ceneri degli io inferiori che, a questo punto, senza troppi riguardi, si potrebbero anche chiamare gli io inferi, o “inferizzati”, dal momento che le correnti paralizzanti che li hanno resi tali, provengono dalle piú oscure regioni del subumano.

 

La battutaccia del marchese del Grillo/Sordi non è niente di piú che l’attimo di una sfacciata esultante irriverenza; assomiglia al visibilio scomposto di un ultrà al gol del bomber preferito; un motivo in piú per sentirsi negletto, per abbassare la guardia, e con essa il livello della propria dignità di uomo. Molto di meglio si potrà fare, se in alcuni momenti cruciali delle nostre esistenze ricorderemo  un’altra battuta/storiella, di sapore diverso e di direzione opposta: si narra di un tale, probabilmente d’origine persiana, il quale aveva acquisito una notevole fama di artista, in particolare come scultore di leoni.

 

Leone di marmo

 

I suoi leoni di marmo parevano davvero vivi. Correndo cosí voce della sua abilità, e un giorno egli si trovò, gradito ospite, al cospetto di un sovrano o di un condottiero (alcuni indicano ad­dirittura Alessandro il Grande) insomma di un uomo importan­tissimo dell’epoca, al quale non si poteva negare nulla. Egli volle interrogare lo scultore e carpirgli il segreto della sua arte.

 

Al che, il marmista, autore di pregevoli leoni, rispose cosí: «Maestà, la cosa è semplicissima e fattibile da chiunque. Basta avere un blocco di marmo, alcuni mazzuoli e alcuni scalpelli. Si incomincia a picchiettare la pietra e prima o dopo viene fuori il leone che stava in essa».

 

«Sí, certo, capisco – incalzò l’egemone – ma quale criterio, quale metodo adoperi per arrivare al lavoro finito?».

 

«Ah – replicò l’altro – questo è ancora piú elementare: basta rimuovere dal blocco tutto ciò che non ha nulla a che fare con il leone!».

 

Perché non applicare questo disarmante, impensabile, rivoluzionario principio anche al senso delle esistenze umane, al senso delle infinite egopatie; al significato ultimo di tutte le nostre collusioni piú o meno armate, piú o meno collettive, piú o meno sostenute da sconnesse, traballanti determinazioni soli­psistiche? Cosa ci può essere di piú bello e gratificante in questo nostro esistere se non scrollarci d’ad­dosso le sovrastrutture, ammettiamolo pure, fino ad un certo punto, utili, ma dopo, fortemente impe­dienti, e ricuperare le forze originarie, quelle che ci hanno fatto trovare il coraggio di scendere fin qui, nella materialità piú buia? Offrire all’oscurata dimensione terrestre la luminosità ardente della nostra ani­ma che, passo dopo passo, si dirige prima alla conoscenza del mondo, poi alla conoscenza di sé, quindi si ritrova pronta nell’autocoscienza e da lí prosegue la sua marcia verso l’incontro con l’ Io superiore?

 

In fondo, come piú d’una volta si è detto o si è fatto intendere, l’io-ego deve venir sgrezzato, raffinato, distillato e decantato; tale processo è sempre – per lui – un autentico, doloroso travaglio.

 

Immaginiamoci quel che succede quando, nel presentare noi stessi al mondo, col dire d’essere un io, non troviamo nella dimensione interiore altro collegamento identitario del personaggio che affermiamo d’essere, con l’io surrogato e usurpatore, signorotto dell’egocentrica fortezza, dal cui capriccio, pur­troppo, facciamo dipendere tutto, o quasi. Qui sí, che sarebbe veramente giustificato ed anche altamente autoeducativo, rimanere esterrefatti, catatonici, a chiederci: «Come è potuto accadere?».

 

Quanti conoscono soltanto la libertà astratta, di cui molto discutono le tribú dei piccoli io dissociati in lunghe estenuanti dispute dialettiche, accalorandosi al punto di farsi del male l’un l’altro e di man­dare in rovina pure la terra su cui camminano, possono ritenersi esonerati dalla necessità di porsi una domanda del genere.

 

Disimpegnati come sono, avranno l’occasione di prendere a prestito, ancora una volta, i detti e le risposte altrui; il caciaresco, ruspante «Perché io sono io…» andrà benissimo.

 

Potranno perfino riderci sopra. Sgangheratamente.

 

Angelo Lombroni