Affinità cibernetiche

Il racconto

Affinità cibernetiche

La domenica si era annunciata balorda fin dalla mattina. Alla partenza Luca si era accorto di essere in riserva con la benzina. Poteva essere un contrattempo da nulla se almeno avesse avuto nel portafoglio biglietti da 10 o 20 euro. Macché. Si ritrovava con una banconota da 100, che adesso lo scrutava beffarda mentre la rigirava tra le dita e la rinfilava con stizza dove le competeva: tra due biglietti del bus, una ricevuta della lavanderia, un bancomat e una carta di credito entrambi ostili e refrattari a elargire contanti essendo vuoti i loro conti. C’erano però, a fare da elementi apotropaici, un santino di San Pio da Pietrelcina e uno di Santa Rita da Cascia. Loro, si disse Luca, almeno loro, potevano aiutarlo a trovare una pompa di benzina aperta e assistita. L’impetrazione non venne recepita: le pompe che visitò erano tutte chiuse.

Finalmente ne trovò una assistita abusivamente da uno straniero di colore, che vedendo la banconota da cento euro gli chiese: «Tu provi lo stesso dentro distributore?» e sventolava intanto il biglietto da cento. Luca rinnovò la supplica ai due potentissimi santi affinché la banconota venisse accettata dal totem erogatore e soprattutto, cosa piú importante, che gli desse il resto. Capitava, aveva sentito dire, che aspirasse i biglietti di grosso taglio e non restituisse il resto. A chi era capitato, ogni tentativo di farsi risarcire dalla pompa era risultato vano. Era impossibile infatti provare al gestore che una delle banconote trovate nel totem al momento della ripresa del servizio fosse la sua. Ma per fortuna il paredro dei due santi funzionò. La macchina aspirò la banconota, segnò la quantità da erogare, 20 litri, e diede il resto.

«Tu molto fortunato» commentò il magrebino, accettando con un largo sorriso l’euro di mancia, e facendo oscillare la testa minuta come un metronomo dai capelli nero pece.

Se fosse veramente fortunato, pensò Luca, lo avrebbe confermato o smentito l’incontro con Roberta, di lí a poco. Doveva passare a prenderla sotto casa di lei alle dieci, per trascorrere una giornata da qualche parte, nei dintorni di Roma. Un posto non molto lontano, da raggiungere in un’ora o poco piú. Trattoria di campagnaAvrebbe comunque fatto scegliere a lei, ma per precauzione sulla carta del Lazio aveva segnato una decina di località, tutte nel raggio di cento chilometri, tra campagna e mare. Alcune nel viterbese, altre in Sabina, la maggior parte nella stessa provincia di Roma, paesi con qualche monumento importante, rovine archeologiche, ma soprattutto con quelle trattorie senza pretese, dove con quindici euro a testa ti danno, dopo i soliti antipasti indefinibili annegati nel­l’aceto, una gagliarda bruschetta e un piattone di fettuccine al sugo per iniziare. Dopo un simile trattamento pantagruelico a base di amido e pinzimonio, era certo che lei, Roberta, avrebbe desistito dal prendere altro, essendo maniaca del peso forma, secondo quanto aveva appurato Luca nei rapidi discorsi alla cassa del supermercato dove la ragazza lavorava.

Peso forma e lettura, gli aveva confidato, e poi libri, di buona letteratura. Li leggeva soprat­tutto in metropolitana, andando al lavoro e nel ritorno a casa. Viveva con la madre e la sorella. Il padre si era defilato anni prima. Una condizione ideale.

E in piú era bella, Roberta. Delusa da un fidanzamento serio, durato due anni, con un meccanico amante della caccia e della pesca sportiva. Quante domeniche passate in attesa sul molo di Fiumicino o al Circeo, sulle rive dell’Aniene o della Nera, intabarrata in giacconi a bere caffè bollente dal thermos o a succhiare bibite caramellose nei mesi caldi. E poi gli spari, i poveri uccelli che cascavano giú tra le canne con un grido straziante, i cani trafelati e complici della carneficina. Si erano lasciati dopo una domenica passata a mollo nella palude del Cappellaccio in Maremma. E non solo per l’umidità e la pioggia, ma perché quando si erano fermati al bar ristorante sull’Aurelia, il fidanzato, Piero, aveva spudoratamente flirtato con la moglie di uno dei cacciatori, suo amico tra l’altro.

«Non sarai anche tu un maniaco della caccia?» aveva insinuato Roberta, durante una delle brevi conversazioni alla cassa del supermercato, quando il loro rapporto era entrato un una confidenza piú intima e personale.

«Vorrai scherzare – aveva reagito Luca – sono vegetariano!».

«Allora, magari, ami pescare».

«Macché. I pesci mi fanno pena».

Tipo strano, aveva concluso la ragazza. Ma proprio per quella sua specie di candore disarmato, le piaceva. Avrebbe potuto gestirlo con piú facilità. E cosí era arrivata ad accettare quella uscita domenicale.

«Sí, d’accordo per la gita – gli aveva detto – ma è solo per vedere come può funzionare tra noi».

E lui, si era detto che poteva starci. Non aveva troppo da scegliere. Pochi soldi, un impiego di correttore di bozze presso un’agenzia di editing. Con una joint venture di due stipendi, poteva scapparci anche il matrimonio. Usciva anche lui da una storia strampalata con una tedesca di Brema, Annelise. L’aveva conosciuta a un vernissage a via Margutta e la storia era durata meno di un anno. Poi lei si era lasciata convincere da un pittore napoletano che aveva una mansarda ai Parioli e girava con un gran cappellone da texano e fumava sigari. Però vendeva bene i suoi quadri che a suo dire erano metafisici, attraversavano l’assoluto interiore. Erano incomprensibili paesaggi allucinati. La mansarda altolocata aveva vinto alla grande contro la monocamera con servizio e cucina al Salario.

«Preferisci il mare o la campagna?» chiese Luca, stringendo la mano di Roberta.

«Intanto, andiamo» aveva risposto lei.

In macchina Luca notò che aveva gli occhi cerchiati e appariva tirata.

«Qualcosa non va? – domandò mettendo in moto – Stai male?».

«No – rispose Roberta – ho solo dormito poco e male».

«Non mi hai detto dove preferisci andare” insistette Luca. Lei rifletté, guardò svagata fuori lo scenario grigio della strada, i muri dei palazzi, gli alberelli stenti che parevano divincolarsi dal cemento dei marciapiedi mostrando radici nodose nell’esiguo riquadro del colletto di terra.

«Verde – disse in un sussurro – andiamo in campagna».

Uscirono dalla città. Le case si diradavano e il paesaggio cominciò a distendersi in ampi spazi verdi di campi e pascoli radi. Imboccarono la Cassia. Poco dopo Formello lessero un segnale giallo che indicava “Santuario della Madonna del Sorbo”.

Madonna del SorboRoberta lo lesse e mise fuori la mano dal finestrino. Esclamò: «Volta lí!» appariva eccitata.

«Come mai? – chiede Luca, con un certo stupore. – Ti piacciono i luoghi religiosi?».

«Ne ho sentito parlare da una cliente. C’è un quadro miracoloso, e la natura pare sia bellissima».

Luca obbedí, e abbordò una stradina tra alberi e rocce di tufo rosso,

Arrivarono al santuario, con una pieve ad arcate e un campanile che svettava sull’edi­ficio di modeste dimensioni e carattere architettonico. Poco distante scorreva un ruscello, e appresero da una targa che tutta la montagnola era denominata “del Sorbo” per via dei corbezzoli che vi crescevano.

Avevano parcheggiato sullo spiazzo davanti al santuario, che però era chiuso. Un cartello affisso sul portale spiegava che all’interno erano in corso dei restauri. Luca e Roberta divisero la delusione con altri visitatori che arrivavano, leggevano il cartello e commentando alla fine, senza molta eleganza, il fatto. Poi tutti fecero la stessa cosa: costeggiando il ruscello si inoltrarono nel bosco, ammirarono la vegetazione spontanea di felci e ciclamini, ascoltarono il chiocchiolío dell’acqua tra i sassi, videro rane saltare e luce filtrare dorata tra i rami dei grandi alberi che neppure il vento riusciva a smuovere. Solo un lieve fruscío ne accusava il passaggio nel folto delle articolazioni nodose, coperte di muschio.

«Bello, qui, vero?» disse a un certo punto Luca, e provò a passare il braccio intorno alla vita di lei. Il corpo di Roberta si irrigidí e il giovane si staccò da lei. Faceva caldo nei punti scoperti dalla vegetazione e solo costeggiando il greto riuscivano a godere della frescura della correntía. L’acqua era come cristallo e lasciava vedere piccoli sassi variopinti sul fondo.

CascatellaSi era fatta l’ora di pranzo. Finirono come tutti con il convergere verso una trattoria, la piú vicina al santuario. Presero un tavolo sotto una specie di pergolato, col nastro argenteo del ruscello che traspariva in lontananza dalla macchia. Sedettero, e Luca avvertí quanto la ragazza si trovasse distante dal tempo, dal luogo e dalla sua compagnia. Ordinarono e mangiarono in silenzio. E silenzio era intorno, fatta eccezione per i discorsi a bassa voce degli altri avventori, il cinguettío di rari uccelli che mendicavano briciole tra i tavoli. Il santuario era chiuso, ma l’aura del sacro si era trasferita fuori e impregnava tutta la natura, condizionando persino i gesti e le voci dei clienti e dei camerieri. Un diapason morbido era nel ritmo delle vita vegetale, animale e umana.

«Sí – ammise Roberta, reminiscente dell’osservazione di Luca all’arrivo – è molto bello qui».

Lui si rallegrò, la giornata prometteva di volgere al meglio. Lei si compiaceva, con un modo tutto suo di piegare il capo di lato, di sorridere, di farsi contagiare dai colori cangianti che piovevano dall’alto dei rami, del cielo che li trapassava, dei barbagli del torrente tra gli arbusti del sottobosco.

Al caffè, quando nel tranquillo ristorante si era creata un’atmosfera di abbandono postprandiale, con le voci dei clienti ai tavoli un po’ su di tono ma non al punto da essere fastidiose e irritanti, soltanto soddisfatte del cibo e della pace agreste, e quindi intonate al registro delle creanza, con gli uccelletti sazi di briciole e di umana fiducia, ecco, quando si erano venute a creare le condizioni del benessere nei negli umori neuronali, ecco che arrivarono i guastatori della quiete: i motocrossisti. Prima due in sella alle rispettive motociclette rinforzate, veri mostri scoppiettanti, con le ruote dentellate che mordevano il terreno argilloso di una pista abusiva ricavata nel terreno a ridosso del torrente, per fortuna sulla riva opposta a dove si apriva il belvedere del ristorante. I due erano solo le staffette del grosso del corpo incursori. Nel giro di una mezzora, decine di centauri forsennati tracciavano scie profonde nel terreno, in una bieca sinfonia di stridori, schiocchi, rombi laceranti o cupi, urla, incitamenti e imprecazioni. MotocrossLe forze celesti che vegliavano sul santuario dovettero vedersela con quelle infere alitanti dai tubi di scappamento, ululanti nello strazio dei freni, deflagranti nei ri­torni di fiamma dei motori. Insomma, la valletta dedicata alla Vergine delle acque chiare, fresche e dolci del ruscello sacro trasformata in una caldera di furori meccanici, umane follie e intemperanze. Le moto arrivano a sfiorarsi, si superavano, falde di terriccio schizzavano al mordente dei pneumatici.

«Maniaci e stupidi!» si lamentò Roberta. Si era alzata dal tavolo avvicinandosi alla ringhiera che delimitava la terrazza del ristorante. Luca parlottò col proprietario il quale, sconsolato, allargando le braccia, si scusò informando che, nonostante decine di denunce, lo scempio del motocross continuava. I giovani, disse sconsolato, sfogavano i guai di famiglia, la foga dell’età, o forse la rabbia della disoccupazione, con la motocicletta.

«Ma quanto dura, lo strazio?» chiese un cliente, che minacciava chissà quali inapplicabili punizioni che né lui né la legge avrebbero mai potuto mettere in atto, avendo contro, in definitiva, le famiglie, i rivenditori di moto e di pezzi di ricambio, i meccanici e i gommisti, i farmacisti e i dentisti, ché le cadute rovinose provocavano ferite, abrasioni di ogni sorta e rotture di denti, e infine i petrolieri, che dopo un pomeriggio domenicale, tra le uscite di normali famiglie in auto e i violenti exploit dei sagittari su moto, lucravano extra consumi di combustibili di ogni tipo. La rassegnazione finí con l’imporsi quindi alla rabbia, e ad ogni sterile proposito di ulteriori denunce e impraticabili vendette.

Luca si sfogò con un piú formale che sostanziale risentito: «Io li chiamerei, piuttosto, criminali!».

E il gestore aggiunse: «Ben detto, proprio criminali!» e allungò il braccio in direzione della pista e dei centauri impuniti, quasi volesse abbozzare un gesto esorcistico per condannarli a una futura, auspicabile vendetta divina.

Mentre s’incamminavano per ritornare alla macchina, Roberta, uscendo da una sua cogitazione, disse: «Ma forse esageriamo nel giudicare questi ragazzi». Il suo tono era condiscendente, e venato, parve a Luca, di un leggero sottinteso polemico nei suoi confronti. Lei seguitò: «Non possiamo mettere tutti sotto una campana di vetro e pretendere la santità a tutti i costi».

Luca la guardò sorpreso. Replicò: «Il rispetto degli altri, però, e dell’ambiente, mi sembra piú che doveroso».

Lei sfoggiò un sorrisetto ironico, facendo eco all’ultima parola: «Doveroso… Che parole usi!».

Luca si fermò un attimo a osservarla, ma non replicò. Mise in moto la vettura e imboccò, perplesso, la via del ritorno.

Alle porte della città, un vistoso striscione messo di traverso sulla via annunciava in caratteri bianchi lucidi sullo sfondo verde prato: “Kermesse informatica a Villa Ada”.

«Che pensi, ci andiamo?» propose Luca.

«Perché no?» acconsentí lei. Se non altro, meditò, non ci saranno motocentauri in libertà. Maniaci dell’elettronica, magari, patiti del clic, però sempre meno rumorosi e invadenti dei crossisti.

Il rumore sembrava tuttavia connotare quella giornata. C’era un grande palco per lo show di un noto gruppo musicale. Per fortuna si sarebbe esibito in tarda serata. Accanto al palco però avevano collocato una struttura che dava il nome alla manifestazione. Una larga pedana di legno, sotto una tettoia sorretta da tralicci di metallo argentato, ospitava una ventina di macchine elettroniche, dai flipper alle piste automobilistiche digitali, ai giochi di tattiche militari. Non mancavano alcune macchinette mangiasoldi per i videopoker. Insomma, le solite trovate per richiamare e spennare polli. Luca stava proporre di tornare sui loro passi e abbandonare quella confusione, quando vide Roberta dirigersi con gli occhi spalancati e il passo deciso verso un grosso totem dai colori fantasmagorici proprio in fondo alla pedana. Emanava luci multicolori e tintinnii insinuanti. Al termine della sua funzione, il rilascio di una scheda personale, emetteva un squillo piú sonoro accompagnato da un forte lampo psichedelico. Sopra il totem, un grosso cartello diceva: “Cerca la tua vera metà”.

«Dai, proviamo!» propose eccitata Roberta. A Luca aveva confidato di credere negli oroscopi e nei maghi. Nei momenti delle grandi decisioni era andata da una signora in zona Cessati Spiriti che faceva i tarocchi. Ma qui, doveva aver pensato la ragazza, il responso della macchina oracolare digitale veniva emesso con la modica cifra di cinque euro, evitando l’imbarazzo di subire le reazioni parossistiche dell’indovina, che sembrava entrare in trance a ogni carta che rovesciava sul tavolino dei responsi, sbandamento che durava solo fino all’arrivo del pagamento, quando la maga riprendeva le sue facoltà incassando il dovuto.

«Ma sono tutte sciocchezze!» si provò a dire Luca.

Lei però lo incitava, lo spinse quasi verso il totem fibrillante di led e circuiti.

Totem«Comincia tu…» si salvò in extremis Luca.

Lei non se lo fece ripetere due volte. Si avvicinò alla macchina e impostò i suoi dati personali: luogo e data di nascita, sesso, famiglia, e poi tutta una serie di informazioni piú o meno generali, i tic, le aspirazioni, le fobie, insomma una specie di ritratto antropometrico che venne assorbito dall’apparecchiatura elettronica. Il totem si comportò da autentico reperto cyberspaziale: si agitò, sibilò,vibrò. Infine emise da una fessura azzurra sul davanti una scheda viola pallido. Il cartoncino riportava scritti in nero i risultati caratteriali del soggetto analizzato dal congegno, le sue possibilità e attitudini, e sul bordo superiore del tagliando viola pallido un grosso numero vistoso in nero, con il punteggio assegnato. La cifra, un 457 a caratteri di scatola, doveva rappresentare il succo psicobiologico del soggetto richiedente il responso. Nel caso della ragazza, un ottimo quoziente, avvertiva la didascalia riportata sul totem, che stilava una scala di valori. Quelli totalizzati da Roberta si avvicinavano molto al valore dell’eccellenza.

Quando ci provò Luca, il congegno emise un verdetto agghiacciante: non solo lo qualificava come ipocondriaco e inibito, ma gli assegnava un ben misero punteggio: 129. Il giovane appallottolò il cartoncino e le getto in un cestino dei rifiuti. Roberta invece esibiva il suo cartoncino e lo mostrava fiera in giro ai curiosi che facevano capannello. Si trattava di un risultato assai ragguardevole, e la conferma veniva proprio da quelli che ci avevano provato prima di lei.

Una voce alle loro spalle esclamò euforica, rivolgendosi a Roberta: «Ehi, ma noi abbiamo lo stesso punteggio!» e le metteva sotto gli occhi il suo cartoncino, con la cifra 457. Anche il colore era lo stesso: un bel violetto tenero.

«È vero!» confermò lei, scambiando con lo sconosciuto un’occhiata d’intesa.

«Piacere, Silvio» si presentò il 457.

«Roberta – disse lei – e il piacere è mio!»

Si misero a chiacchierare, lei con una spigliatezza di cui Luca non aveva avvertito, durante l’intera giornata, segnali di sorta. Il fortunato suo pari, Silvio, altrettanto sciolto e accattivante. Un idillio all’ombra, anzi alla luce, del totem cibernetico, un vero paraninfo senza pudore. E per tutto lo spiazzo era un cercare il proprio partner ideale, quello con lo stesso punteggio e almeno con un punteggio abbastanza simile, che so, 375 e 387. Il totem era un sensale di future unioni. Passò un gruppo di majorette in un gran frastuono di tamburi, pifferi e corpi fescennini in libertà. Quando Luca distolse lo sguardo dalle ragazze succinte che lanciavano in aria i loro bastoni variopinti, con larghi sorrisi al pubblico che si stava ammassando, cercò Roberta tra la folla eccitata. Ma la ragazza era sparita, in compagnia del suo equivalente numerico. Chi si appariglia si piglia, recitò tra sé Luca.

Poi, quasi in trance, per rabbia, ricompose i suoi dati personali e li introdusse nel totem. La macchina vibrò alla grande, sussultò, si accese, e dopo tutto il giro di calcoli e controlli emise il nuovo verdetto: 687 punti, un quoziente mai ottenuto da che quelle macchine chiromanti erano state introdotte. Almeno cosí specificava la didascalia apposta sul parallalepipedo brilluccicante. Un punteggio record, riconobbe un signore che aveva seguito il suo exploit. E la conferma venne anche da altri avventori.

«Dovrebbe adesso cercare la sua metà» gli suggerí con garbo il signore di una certa età che si stava interessando. Aggiunse poi con rammarico: «Certo, le sarà difficile trovarne una che abbia lo stesso punteggio…».

Il giorno dopo Luca spedí il tagliando a Roberta per posta, senza commento.

Ma lei non gli rispose.

 

Fulvio Di Lieto